Agennaio, in occasione della nascita del Centro di studi e ricerca sul cibo Sostenibile, realizzato dall’Università di Torino, dal Politecnico di Torino, dall’Università del Piemonte Orientale e dall’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini ha lanciato un appello per l’introduzione dell’insegnamento obbligatorio dell’educazione alimentare nelle scuole, dalle materne alle superiori.

L’appello è stato scritto da Slow Food Italia, con la partecipazione dell’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo e della Comunità Laudato Si’ e si può firmare on line sul sito appelloeducazionealimentare.it. I promotori lo hanno rilanciato il 22 aprile, in occasione della Giornata mondiale della Terra. L’obiettivo è di arrivare a un milione di firme.

Nell’appello si legge che «le scelte alimentari che compiamo più volte al giorno possono diventare un’importante leva di cambiamento. Affinché ciò avvenga, urge un importante investimento in educazione alimentare, che fornisca ai giovani gli strumenti per diventare protagonisti del proprio futuro. L’educazione alimentare permette di riscoprire il piacere del cibo, di comprenderne il valore, di conoscere il modo in cui viene prodotto, trasformato e distribuito, di capirne le dinamiche sociali, culturali, economiche e ambientali».

Carlo Petrini, cosa vuol dire insegnare l’educazione alimentare a scuola?
La questione che poniamo con questo appello è dirimente rispetto alla fase politica che stiamo vivendo. Mai come in questo momento il sistema alimentare è responsabile di uno scompenso economico globale: ad esempio, è responsabile del 37 per cento delle emissioni di CO2 che alterano il clima e della perdita di biodiversità, mentre l’economia non dà valore ai contadini che lavorano. È una situazione drammatica, ma cambiare questo sistema senza una base informativa è un’impresa ardua poiché, mentre in passato la società contadina la trasmetteva di padre in figlio, oggi invece i ragazzi crescono senza i fondamentali di un’educazione alimentare. Per questo crediamo che l’insegnamento nelle scuole sia necessario.

Pensa che questo governo, che si sta dimostrando non particolarmente sensibile alle questioni ambientali, possa ascoltarvi?
Ritengo che questo processo non deve essere calato dall’alto, ma deve essere vissuto dalla società. Appena ci siamo mossi, sono venuti fuori due o tre progetti di legge e il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha fatto un piccolo passo dicendo che ci saranno delle ore dedicate all’educazione alimentare nelle scuole. Sono però convinto che se non ci sarà una mobilitazione della società civile non accadrà nulla.

C’è anche un problema di risorse. Crede che le scuole siano attrezzate per insegnare l’educazione alimentare?
C’è un esercito di 40 mila insegnanti senza cattedra che potrebbero essere qualificati su materie nuove come l’educazione alimentare, ma anche quella sentimentale e sessuale. In questo modo potrebbero entrare nel sistema educativo.

Poi c’è l’università. Avete intenzione di proporre il metodo che avete sperimentato nella vostra accademia di Pollenzo?
Penso che tutto il sistema universitario debba cominciare a perseguire queste cose. Quando siamo nati, vent’anni fa, l’educazione alimentare non era proprio nelle corde del sistema accademico, che non la riconosceva. Si pensava di risolvere tutto con la medicina, con le diete o con le tecnologie alimentari. La caratteristica fondativa dell’università di Pollenzo era invece di avere un approccio multidisciplinare alle scienze gastronomiche: da noi si parla di antropologia, di economia e di scienze. I corsi di laurea nelle università italiane invece sono monocorde.

Quale potrebbe essere l’argomento di una lezione di educazione alimentare?
Quando parliamo di cibo, parliamo di economia primaria, del motivo per cui siamo viventi. Inoltre, affrontiamo il tema delle disuguaglianze e delle ingiustizie. Ogni anno un miliardo e mezzo di tonnellate di cibo vengono buttate via. Provare a cambiare queste cose con una società civile impreparata ci mette sotto schiaffo.

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Cioè?
Faccio un esempio. Sono bastati pochi trattori nelle strade d’Europa per spingere la politica a ritirare tutta la politica ambientale maturata fino a oggi. Ciò significa che non c’è coscienza su queste cose. I contadini che protestavano avevano delle buone ragioni per farlo, perché denunciavano di lavorare sotto costo. Però sbagliavano il bersaglio: i loro problemi non sono provocati dalle politiche ambientali dell’Unione europea ma dalla grande distribuzione che detta i prezzi. Questo significa far arricchire pochi a discapito di chi lavora. Se la società civile e gli agricoltori non lo comprendono, non si ottiene nulla.

Nelle piazze i contadini che protestavano davano per scontato che si dovessero usare i pesticidi, come se non ci fossero altre possibilità di coltivare. Anche questo sembra un problema di mancanza di educazione e di formazione.
Siamo in un momento storico molto importante, perché questo sistema alimentare è sia vittima che carnefice. È vittima perché il cambiamento climatico sta stravolgendo i territori e le coltivazioni ed è carnefice perché tra le ragioni dello scompenso ambientale ci sono l’utilizzo esplicito di prodotti chimici e le monocolture. Il sistema alimentare paga uno scotto enorme per tutto ciò, ma non si riconverte e trova negli ambientalisti degli antagonisti. La politica è riuscita a mettere i contadini contro gli ecologisti. Invece la principale responsabile di questa situazione è la Grande distribuzione organizzata, che mentre gli agricoltori protestavano continuava a vendere i prodotti sottocosto nei supermercati. È la nevrosi più assurda a cui mi sia capitato di assistere.