A Pio La Torre, segretario regionale siciliano del Pci ucciso il 30 aprile del 1982 insieme al suo autista Rosario Di Salvo, si deve una delle leggi più importanti nell’azione di contrasto alla mafia sul versante economico-finanziario: quella che prevedeva per la prima volta il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni e dei patrimoni mafiosi. Poi integrata nel 1996, grazie anche alla mobilitazione Libera che portò in Parlamento un milione di firme, con il riutilizzo sociale dei beni confiscati, che prevede l’assegnazione dei patrimoni e delle ricchezze di provenienza illecita ad associazioni, cooperative ed enti locali in grado di restituirli alla cittadinanza, tramite servizi, attività di promozione sociale e lavoro. Una legge che però fatica a trovare piena applicazione: molti dei 13mila beni confiscati (di cui 11.238 immobili e 1.708 aziende) non sono utilizzati – quasi 4mila non sono ancora stati assegnati – e versano in stato di abbandono. «E questa è una doppia sconfitta per l’antimafia», ci spiega Franco La Torre, figlio di Pio.

Di chi è la responsabilità?

L’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità è il punto debole del meccanismo, soprattutto per la carenza di organico.

Governo e Parlamento faranno qualcosa?

Il precedente governo si era impegnato a rafforzarla. Anche il nuovo ministro della Giustizia Orlando si è impegnato. Staremo a vedere se dalle parole si passerà ai fatti. Noi continueremo a vigilare e ad incalzare».

In questi anni ci sono stati dei cedimenti nel contrasto alle mafie?

Direi di no. In ogni caso è vero che non si fa mai abbastanza. Le mafie vivono e si rafforzano non solo con la violenza e con gli omicidi, ma soprattutto con la collusione di parti deviate della nostra classe politica e dirigente. Ed è qui che bisogna intervenire e fare di più.più.