Giovane docente all’Istituto per la Politica Estera della Johns Hopkins University, il palestinese Fadi Salameen è noto nei Territori occupati per i suoi attacchi al presidente dell’Anp Abu Mazen. Attacchi, via Facebook e Twitter, volti a far apparire l’anziano leader come un incapace senza carisma e autorità. Non pochi palestinesi sui social li approvano ma Salameen in realtà non una visione politica diversa e più radicale rispetto a quella di Abu Mazen. Più semplicemente è un noto sostenitore di Mohammed Dahlan, ex potente capo dei servizi di sicurezza palestinesi espulso da Fatah e divenuto il rivale più accanito e pericoloso di Abu Mazen. Così quando qualche giorno fa Salameen ha lanciato la bomba del cancro allo stomaco che affliggerebbe Abu Mazen, tanti sono rimasti un po’ freddi. Si sono riscaldati invece nell’entourage del presidente e ai vertici di Fatah che hanno minacciato «provvedimenti punitivi» nei confronti di coloro che diffondono «notizie prive di fondamento».

«È difficile valutare l’onestà delle fonti di Salameen» ci dice il giornalista Nasser Atta «personalmente non credo che Abu Mazen abbia il cancro allo stomaco. Ma non è in salute. Ha 83 anni, malattie note da tempo e dopo aver pronunciato (il 20 febbraio, ndr) il discorso all’Onu è andato in un ospedale americano per sottoporsi a controlli medici. I suoi collaboratori dicono che i risultati sono stati buoni ma qualcuno sussurra che (Abu Mazen) faccia uso di cortisone, per cosa non è chiaro». Comunque stiano le cose, l’ingresso del presidente in quell’ospedale statunitense, ha ridato vita al Game of Thrones, al Trono di Spade palestinese, come qualcuno descrive la lotta per la successione alla testa di quell’entità priva di sovranità reale che è l’Autorità nazionale palestinese. «Era scontato» aggiunge Nasser Atta «accade sempre quando si parla della salute di Abu Mazen. Solo che questa volta è più serio, perché c’è di mezzo c’è la crisi dei rapporti con gli Stati Uniti cominciata con la dichiarazione di Trump su Gerusalemme come capitale d’Israele». E i media statunitensi hanno subito lanciato la lotteria dei candidati alla presidenza puntando l’attenzione su quelli che piacciono agli Usa e a Israele dove si parla di un Abu Mazen “irrilevante” dopo la sua rinuncia alla mediazione americana.

Sono nomi già noti: il capo dell’intelligence Majd Faraj, il numero due di Fatah Mahmoud al-Alul, l’ex ambasciatore all’Onu Nasser Kidwa, un alto dirigente di Fatah Jibril Rajoub e, appunto, Mohammed Dahlan. Quest’ultimo piace agli Usa e a Israele ma deve superare l’ostilità di gran parte di Fatah e dei servizi di sicurezza dell’Anp se vuole avere della possibilità reali. E non sarà facile. Dahlan comunque usa bene le sue risorse finanziarie, frutto dei rapporti stretti che ha con Egitto ed Emirati. I suoi milioni di dollari hanno già costruito una base di consenso in Cisgiordania. Ma è a Gaza che Dahlan gioca le sue carte migliori. I leader del movimento islamico Hamas, suoi antichi avversari, dopo aver escluso per lungo tempo un’alleanza organica con lui, mercoledì al ritorno dal Cairo dove hanno avuto colloqui con i vertici egiziani, hanno fatto sapere che potrebbero formare con Dahlan un «governo di salvezza nazionale per il bene di Gaza». Hamas, ha spiegato un portavoce del movimento islamico, Ahmad Yusef, al giornale on line Watan Voice, non intende «ritornare ogni volta sui passati legami» di Dahlan con Israele. «Dahlan – ha aggiunto – era un rivale politico ora è un palestinese che cerca di costruire ponti con noi». Ancora più esplicito è stato un alto dirigente di Hamas, Osama Hamdan: «Dobbiamo abituarci a considerare Abu Mazen come qualcuno che fa parte del passato».