Su una panchina, lavora con le erbe: Giuseppe Capitano
"Earth’s Heart", personale di Giuseppe Capitano a Roma, Galleria EdiEuropa La stagione recente dell'artista: in un sensibile graduare di verdi, grigi, marroni, il segno e la macchia accorpano la luce con gesto alla Monet
"Earth’s Heart", personale di Giuseppe Capitano a Roma, Galleria EdiEuropa La stagione recente dell'artista: in un sensibile graduare di verdi, grigi, marroni, il segno e la macchia accorpano la luce con gesto alla Monet
Nel 1872 Claude Monet dipinge Impressione. Sole nascente, esposto nel 1874, presso lo studio del fotografo Nadar, alla prima mostra del gruppo dei futuri impressionisti. Il quadro, che riprende uno scorcio del porto di Le Havre, è un’opera magica, frutto di un’autentica ispirazione poetica, e libera Monet dalla necessità di dover rappresentare un dato paesaggio e dalla schiavitù del volume, sostituito con sottili velature. La pittura, in un atteggiamento d’assoluto, diventa l’espressione del proprio sentimento.
A quasi un secolo e mezzo di distanza, Giuseppe Capitano (al quale la Galleria Edieuropa-Qui Arte Contemporanea di Roma dedica una mostra carica di stimoli: Earth’s Heart) compie lo stesso gesto. Abbandona la rigidità alla quale lo obbliga lo spazio dello studio e insieme a Rocco, il suo cane, si reca quotidianamente nel giardino del quartiere dove abita, ne esplora ogni sentiero, per affrontare il tema neutro del paesaggio, ponendosi problemi puramente pittorici non alieni da implicazioni di natura psicologica.
Seduto su una panchina, tra gli alberi, lavorando con le erbe, a contatto diretto della natura, ne coglie la variabilità delle sensazioni: quella del movimento (il tremore della luce, il bagliore dell’acqua, il luccichio delle foglie) e quella più impalpabile dell’atmosfera. Afferra l’istantanea sospensione del tempo, nel passaggio delle stagioni e nello scorrere delle ore, e il clima che si crea intorno allo spazio occupato, senza preoccuparsi della forma così particolare delle sue sculture, della loro consistenza materiale, della loro stabilità, e dei temi sui quali ritorna quasi avesse sciolto gomitoli di canapa per afferrare barbagli di miraggi, intrecci di tronchi, garbugli di siepi, sull’onda di variazioni musicali da disperdere, foglio dopo foglio, nell’aria.
La costante evoluzione del lavoro di Capitano è nella liberazione raggiunta, tanto da manifestare apertamente l’indipendenza dalla realtà, quasi come i pittori astratti che nel corso del Novecento costruirono un loro mondo poetico solo mediante l’evocazione delle cose dalle quali erano circondati, necessarie perché la pittura definisse se stessa, a costo di un approdo estremo, di una resa «informale» intenzionata a riguadagnare il senso del colore.
L’unità dell’opera è data, più che dai soggetti, dal modo in cui vengono definiti, superando il mondo esterno. Il segno e la macchia, in un sensibile graduare di verdi, grigi e marroni, accorpano la luce e la fanno vivere, come ebbra, proprio sulle cose più riconoscibili. Quelle che alimentano l’idea della genesi mediante una serie di separazioni, attraverso materiali insoliti (canapa, polvere, malva, carbone) e tecniche originali, con il seguito di contenuti mitici, allegorici, didascalici, e la determinazione a dare vita a immagini capaci di staccare dalla realtà costole di nuove esistenze, come dalla terra i germogli, dal suolo le piante, in un luogo fantastico.
Le separazioni successive di questo atto inventivo che, dal generale al particolare, porta al compimento dell’opera e mette le basi per sviluppi consecutivi, ora pieni di colore e di vita, ora monocromi e aridi, ogni volta tendono a ristabilire l’ordine del mondo o a illustrare le meraviglie della natura, in una sorta di Eden del quale Capitano è custode ebbro o coltivatore metodico, sempre in attesa dell’arcobaleno o dei grandi mostri, di Adamo e Eva o dell’arca in cui salvare i tanti animali che lo hanno inseguito in questi ultimi anni.
La filosofia, la cosmologia, le scienze naturali e la storia, le elaborazioni poetiche e le divagazioni leggendarie, ripercorrono senza sosta le scene di un repertorio che, estrapolando episodi e temi, suggerisce ipotetici modelli figurativi, le diverse fonti di luce «immaginarie, alogiche e artificiali», la flora e la fauna magica che allieta l’Eden in cui è possibile riconoscere campi e monti inclinati, muri e città inesistenti, guizzi di filamenti e brulichii di presenze incessantemente concatenati in un complesso, schematico, espressivo partito architettonico, dalle prospettive multiple e dalle cromie sgargianti che non disdegnano di addentrarsi nei ritmi dell’arte popolare o del folclore mediterraneo.
Non manca neppure la suggestione di una rappresentazione scenica, all’insegna della sovrapposizione, della compenetrazione e del ritmo, in pezzi di paesaggio fuggente ed eccentrico, tali e tanti sono i motivi e i soggetti geometrici, floreali, fantastici delle sequenze analitiche tolte dalla multiforme vita moderna, gli scorci illusionistici disseminati nella nitida articolazione delle parti, sia grazie alle forme che ai rapporti gestuali e ritmici tra le figure, disposte con estro coraggioso e prepotente vivacità dall’agile quanto intenso disegno.
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