Le mani. Mignolo, indice e medio della mano destra si appoggiano sul dorso della sinistra che pende abbandonata. Mani eleganti, curate. Non congiunte, ma l’una posata sull’altra, con levità, nel gesto d’una carezza. Una luce declinante vi piove e dà rilievo al gioco delle ombre che la stampa in bianco e nero restituisce puntualmente, modulando i grigi e sfumandoli. La testa del giovane si appoggia, nel sonno, al braccio. Osserviamo il volto. La bocca dalle belle labbra appena, forse, serrate. Il naso perfetto nel rilievo del modellato. Chiuse le palpebre. Le sopracciglia leggere come adagiate nell’arco ampio della fronte. Alcuni riccioli ricadono sul braccio. La luce plana sulla guancia destra ove efelidi lievi  paion comporre una minuta costellazione. Consente l’abbandono al sonno un anello nel giro del quale il gomito sinistro e la testa han trovato ricetto. Tanto che quella corolla, diresti, accoglie nella sua rotondità a protezione non solo il braccio piegato e la testa reclina, ma anche custodisce, col sonno, le armoniose orbite di accordati sogni. La virtù del cerchio, l’equidistanza dal centro: un anello che unisce e regge, conferendo alla immagine fotografica gli equilibri di prodigiose concordanze. Aduna la misura che alle membra infonde il sonno.

Questa mirabile fotografia di Kurt Ammann è esposta alla «29 Arts in Progress Gallery» di Milano, in una personale del fotografo svizzero curata da Giovanni Pelloso. La didascalia dice: «1952. Jean Claude. Parigi». Racconta Ammann: «Nel 1945 potei partire per Parigi. Non c’era molto da mangiare, ma l’atmosfera in cui si viveva era favolosa. A Saint-Germain-des-Prés, alla Cave Orienté, ascoltavo Sydney Bechet e Claude Luther, e alla Romerie Martiniquaise ho incontrato Juliette Greco». Jean Claude e l’anello, assicurato ad ancorare l’attracco dei battelli che navigano la Senna e a lasciar liberi i sogni. Kurt osserva la bellezza di Jean Claude dormiente, contempla il suo sonno senza violarlo. Un sonno che l’immagine fotografica rende per sempre incolume, illeso. «Oh come immerso / Nella profonda quiete / Dolcemente respira! / quei flessuosi tralci, / Che gli fan con le foglie ombra alla fronte, / Quel garruletto fonte, / Che basso mormorando / Lusinga il sonno, e gli lambisce il piede, / Quell’aura lascivetta, / Che gli errori del crine agita, e mesce, / Quanta, oh quanta bellezza, Oh Dio, gli accresce! / Zeffiretti leggieri, / Che intorno a lui volate, / Per pietà nol destate; / Che nel mirarlo io sento / un piacer che diletta, ed è tormento». Così, lo stupore amoroso negli occhi e nelle parole di Selene, Pietro Metastasio ci rappresenta Endimione, avvolto dal sonno che aveva invocato, come Jean Claude ai bordi della Senna: «Deh vieni, amico sonno / E, dell’onda di Lete / Spargendo il ciglio mio, / Tutti immergi i miei sensi in dolce obblio».

Narra Apollodoro nel primo libro della Biblioteca: «Da Calice e da Etlio nasce Endimione. Dicono alcuni che fosse figlio di Zeus. Della sua bellezza straordinaria si innamorò Selene. Zeus gli concede di ottenere quello che desidera: lui sceglie di dormire per sempre, senza morire, senza invecchiare».

Ma, secondo un’altra versione del mito, Selene, la Luna, che passa nel cielo della Caria sopra il monte Latmo, illumina una notte il volto e il corpo di Endimione dormiente e, nella tenuità che emana la sua luce, coglie l’incanto dell’immobile bellezza del giovane pastore mentre il suo raggio lo sfiora. E Selene chiede allora a Zeus che resti incontaminata e perenne una tale bellezza. Far sì che quella prima apparizione permanga a lei intatta una volta per sempre. Le variazioni della luce lunare, nel crescere e nel calare fino allo spegnersi, in Endimione avrebbero trovato così un riscontro certo di durata e di splendore. Selene, nel volgersi mutevole del suo corso, muove a Endimione, lo contempla e lo mantiene intatto. Ammann dei suoi anni parigini ricorda: «cominciavo a fare foto per me stesso, seguendo il mio istinto e le mie impressioni, attratto soprattutto dalla figura umana.

È stata sempre presente in me la frase di Saint-Exupery: «Il ne faut pas regarder avec les yeux, il faut regarder avec le coeur».