Sulle pareti dell’ambasciata israeliana a Città del Messico, a tre giorni dall’ottavo anniversario della scomparsa forzata dei 43 studenti della Scuola normale di Ayotzinapa, alcuni manifestanti hanno voluto lasciare scritta la loro rabbia: «Né perdono né oblio», «43», «estradizione per Tomás Zerón». Una protesta, quella promossa mercoledì dai familiari degli scomparsi, diretta a ottenere da Israele l’estradizione dell’ex direttore dell’ormai estinta Agenzia di investigazione criminale Tomás Zerón, accusato di occultamento di prove e di tortura contro i testimoni del caso dei 43 studenti, definito lo scorso agosto dal rapporto della Commissione della verità creata dal presidente López Obrador come «crimine di stato».

Neppure la lettera inviata lo scorso anno dal presidente al primo ministro israeliano Naftali Bennett per sollecitare l’arresto e la successiva estradizione di Zerón, nascosto a Tel Aviv dal 2019, è bastata finora a sbloccare la pratica. Un ritardo, quello di Israele, che il New York Times, nel luglio del 2021, aveva motivato come un atto di rappresaglia per il voto del Messico all’Onu a favore della causa palestinese.
In un videomessaggio diffuso sui social dopo la protesta dei familiari degli studenti, l’ambasciatore di Israele in Messico Zvi Tal, dopo aver condannato «la violenza espressa durante la manifestazione», ha assicurato che il suo governo sta esaminando la richiesta di estradizione di Zarón – presentata dal Messico già nel settembre del 2020 – nel rispetto degli obblighi giuridici internazionali, ai quali, ha sottolineato, il paese deve attenersi anche nel caso di «una petizione relazionata a una ferita aperta nell’opinione pubblica messicana». Senza tralasciare, naturalmente, di esprimere vicinanza al dolore delle famiglie degli studenti.