Si avvertono molte e diverse sensazioni visitando le sale della mostra di Guido Strazza, curata da Giuseppe Appella per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Si prova innanzitutto la soddisfazione di poter percorrere in un’unica occasione l’intera produzione di questo artista, il cui lavoro si è negli anni espletato in serie coese di opere, di volta in volta presentate al pubblico come episodi di un percorso che l’esposizione odierna rivela essere stato lungo, articolato e intensamente coerente.

Il nucleo centrale della mostra è costituito proprio da una selezione di dipinti dei cicli più noti: Ricercare, della metà degli anni settanta, che dà il titolo all’avvenimento e chiude il percorso al piano superiore di via Gramsci; La trama quadrangolare, della fine degli anni settanta; Segni di Roma e Cosmate del decennio successivo; Aure degli anni novanta; e Orizzonti degli anni duemila, raccolti nella grande sala centrale al pianoterra.

A fare da cornice a questa produzione matura sono alcuni lavori dei primi anni di attività, un’importante scelta di incisioni (pratica che dai primi anni sessanta è stata fondamentale palestra per le ricerche di Strazza sul segno) e alcune tele più recenti.

Un’altra sensazione che si ha, lungo un percorso che si dipana dagli anni quaranta a oggi, è quella di percepire in diversi lavori l’eco di molti episodi significativi della storia dell’arte italiana e internazionale: partendo dal vorticoso dinamismo che scuote le piccole carte realizzate nel 1942 (anno in cui, appena ventenne, Strazza viene invitato da Filippo Tommaso Marinetti alla Biennale di Venezia), passando per la scoperta dell’astrattismo di artisti come Alberto Magnelli e Paul Klee, avvenuta in Brasile in occasione della sua partecipazione alla prima e alla seconda Biennale di San Paolo nel 1951 e nel 1953.

Evidente in opere come Paracas e Si el rio llega todo serà arruinado, questa scoperta preserva l’opera di Strazza dalle influenze neocubiste allora dilaganti tra i suoi connazionali e gli consente, una volta rientrato in Italia, di rendere ancora più libero il suo procedere, come si vede nel Racconto segnico del 1955 o nella serie dei Balzi rossi del 1958.

Queste opere lo annoverano tra i precoci esponenti dell’informale segnico, accanto a Tancredi e agli artisti che gravitavano intorno alla Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo a Venezia, dove l’artista si stabilisce nel 1954. Come scrive Lorenza Trucchi, Strazza si nutre «di quanto vede: assimila, addiziona, mescola, cancella, trattiene».

Questo atteggiamento di apertura lo ha portato a far decantare in un linguaggio del tutto personale molto di quanto accadeva intorno a lui.

Così negli anni settanta, mentre l’arte concettuale si interroga sull’essenza e le funzioni stesse dell’arte e del linguaggio, raffreddando gli umori accesi del decennio precedente e travalicando sempre più spesso i confini tradizionalmente dati alla pittura e alla scultura, anche nel suo lavoro si avverte una più serrata organizzazione dello spazio, che assume in alcuni casi l’aspetto di una vera e propria «tavola analitica» in cui l’artista valuta tutte le potenzialità della luce e del segno. Lo spazio diviene fluido, osmotico e si apre attraverso effetti ottico-percettivi, ottenuti con l’uso di forme geometriche liberamente combinate, senza tuttavia che il suo lavoro perda mai, come osserva sempre la Trucchi, la sua «impronta evocativa, intensamente lirica».

Le superfici dei lavori di quegli anni si trasformano in «schermi magici» in cui si avverte una compresenza di spazi e attimi diversi, senza uscire mai dai confini materiali della superficie.

È proprio davanti a opere realizzate intorno alla metà degli anni settanta, come le carte dedicate al Paesaggio olandese, le incisioni Gesto e segno, le tele della serie Ricercare e La trama quadrangolare, già ricordate, che si ha la sensazione di riuscire a cogliere il senso profondo del suo operare e di trovarsi di fronte al dispiegarsi di un’indagine caparbiamente condotta sulla natura del disegnare e del dipingere. Guardando questi lavori si ha infatti l’impressione di arrivare a fare esperienza di quella particolare dimensione spazio-temporale di norma accessibile solo agli artisti e ai poeti che si trova tra il dato reale e la sua trasposizione sulla tela o sulla carta.

Una dimensione dove prima la retina e poi la memoria depositano segni e forme, luci e colori, armonie e contrasti, liberi da ogni dato reale superfluo e caduco. Una dimensione che partecipa della complessità e della duplicità propria del nostro stesso essere nel mondo, in cui, come ha scritto Strazza, non è sempre possibile «tener stretti insieme i nomi con le cose».

Quello che si offre al nostro sguardo è, come scrive Antonio Pinelli, un «terrain vague fecondato da una perenne e magmatica metamorfosi». Una «topografia di luoghi dell’immaginario», l’ha definita, ancora, la Trucchi, fatta di trame e tessiture, di traiettorie e di reticoli, di luci e di ombre, di liberi agglomerati di colori e di segni. Di questi segni ci sembra di aver scorso alla fine del percorso un intero inventario e ci accorgiamo di aver provato quella «vertigine», come ha scritto Umberto Eco, che danno proprio le liste nel loro tentativo poietico di attribuire una forma a quanto disordinatamente ci circonda, lasciando presagire l’infinito che potrebbero ancora arrivare a comprendere.