Fiorai e venditori di corone, fabbricanti e commercianti di profumi, orefici e cesellatori, fulloni, panettieri e vendemmiatori che «annunciano» il trionfo di Dioniso, dio dell’estasi sfrenata: sono gli Amorini dipinti nel salone (oecus) che si affaccia sul portico settentrionale del peristilio della Casa dei Vettii a Pompei.

La domus, riaperta al pubblico lo scorso 10 gennaio dopo ben vent’anni, è nota per la straordinaria ricchezza degli apparati decorativi.

Oltre al «vigoroso» Priapo del vestibolo simboleggiante l’opulenza, il più celebre complesso pittorico della casa si trova nel succitato oecus. Nella zona superiore delle pareti, poeti sono circondati da muse, menadi e satiri musicanti.

Nella fascia mediana, candelabri e tripodi in oro scandiscono pannelli ornati da coppie di personaggi in volo. Sullo zoccolo campeggiano sacerdotesse, amazzoni, menadi e satiri, al di sopra dei quali si aprono quadretti con scene di sacrificio a Diana e psychai che raccolgono fiori.

Ora, un minuzioso lavoro di pulitura degli strati di cera applicati durante i precedenti restauri per conservare la lucentezza dei colori – operazione rivelatasi invece dannosa – ha permesso di riscoprire l’antico splendore degli affreschi. Essi saranno illuminati con sorgenti Led innovative, che consentono di generare un’emissione di luce con uno spettro molto simile a quello del sole, favorendo l’osservazione dei dettagli e delle cromie, ed evitando il degrado dovuto al fenomeno del blue hazard (pericolo blu).

Scrutando dal lussuoso giardino verso l’interno della dimora di Aulus Vettius Conviva e Aulus Vettius Restitutus – probabilmente due liberti arricchitisi con il commercio del vino – gli ospiti potevano ammirare due sontuose sale con «quinte» mitologiche. La prima, un triclinio, è ideata come una pinacoteca, sul fondo della quale è effigiato Issione di fronte a Era seduta in trono, che guarda la scena indicatale da Iside: Efesto è intento ad attivare la ruota attorno alla quale girerà in eterno nella volta celeste il sovrano della Tessaglia, colpevole di aver tentato di oltraggiare la sposa di Zeus. Un altro supplizio, quello di Penteo, si staglia nella seconda sala: la parete centrale dell’oecus in IV stile ritrae, infatti, il re di Tebe che, per aver offeso Dioniso, viene dilaniato dalle menadi. Una di esse gli infligge il colpo fatale scagliandogli un masso sulla testa.

Entrambi gli spazi sono impreziositi da altri «quadri»: Dioniso che svela Arianna addormentata mentre Teseo fugge con la sua nave, Dedalo che mostra a Pasifae la vacca di legno dentro la quale la regina concepirà il Minotauro e ancora Dirce legata da Zeto e Anfione a un toro infuriato, Ercole bambino che strozza i serpenti inviatigli da Giunone.

Nella casa romana, lo sfoggio di opere pittoriche – unitamente alle pavimentazioni in mosaico, al raffinato decoro scultoreo, ai mobili intarsiati e alle suppellettili di vetro, d’oro e d’argento – rispecchiava la «panoplia» del proprietario ovvero, come nel caso della domus dei Vettii, l’ostentazione del suo (nuovo) status sociale.

Ma se, per i visitatori odierni, tale rappresentazione equivale a uno spettacolo di estetica suscettibile di coinvolgere la sfera emotiva e il gusto del bello, in passato tutto ciò corrispondeva a dei precisi codici narrativi. Il significato che il repertorio figurativo rivestiva nella società greco-romana è al centro dell’ultimo libro di Francesca Ghedini (Lo sguardo degli antichi Il racconto nell’arte classica, Carocci editore «Saggi», pp. 408, euro 43,00).

Gli studi sull’immagine – spiega l’autrice nella premessa – sono stati sviscerati da varie prospettive: iconografica, iconologica, antropologica, sociologica oltre che, naturalmente, storico-artistica. Ma ciò che ha spinto Ghedini a raccogliere le riflessioni maturate su questo tema durante un’intensa vita accademica è la consapevolezza che molto resta ancora da indagare in relazione agli strumenti usati per mettere in scena quei racconti ispirati alla grande tradizione epico-mitica.

In virtù di un sostrato culturale comune – formatosi fin dagli albori della civiltà greca grazie ai canti degli aedi che allietavano i simposi e ai racconti trasmessi dalle madri e dalle balie ai fanciulli –, committenti, artigiani e fruitori condividevano un patrimonio di miti ispirati alle imprese di dèi e dee, eroi ed eroine.

Un’eredità che si consolidò nel momento in cui le narrazioni si fissarono in testi scritti, spesso finalizzati alle performance teatrali. Nel corposo volume, corredato da tavole a colori, la studiosa dell’Università di Padova si concentra sul rapporto tra parola e immagine e ancora più in particolare sul percorso attraverso il quale gli artigiani greci arrivarono a trasformare una raffigurazione, che è per sua natura statica, in un racconto dinamico.

Di questo processo, iniziato con l’arte geometrica, possiamo seguire gli sviluppi nei secoli grazie alle testimonianze della ceramica, del rilievo, della pittura e delle copie romane di originali greco-ellenistici. Esso presupponeva l’utilizzo di una serie di stratagemmi, funzionali a suggerire allo spettatore gli eventi che avevano avuto luogo prima o dopo l’attimo illustrato.

L’analisi di Ghedini, dunque, non riguarda le iconografie intese come schemi figurativi ma la costruzione di una composizione a carattere narrativo che comprende da una parte il rapporto fra i vari «attori» della scena, dall’altra il legame di questi ultimi con il contesto. Qui l’autrice presenta al lettore che vorrà a sua volta appropriarsi di solidi strumenti di ricerca, una classificazione delle diverse tipologie di rappresentazione, a seconda che l’immagine colga il momento principale del racconto o lo arricchisca con elementi o personaggi «policronici», oppure proponga una sequenza di scene su uno o differenti piani.

Anche se il volume sarà più agevolmente accessibile a un pubblico specialistico, le doti comunicative dell’autrice, già espresse in altri contributi divulgativi, sono in grado di raggiungere tutti gli appassionati di archeologia e storia dell’arte. Essi potranno infatti riconoscere in questa sintesi, colta ma non elitista, molti dei capolavori con i quali è solito confrontarsi il turismo di massa senza  avere però una corretta percezione di ciò che non solo Pompei ma anche i grandi musei nazionali ed esteri mettono in vetrina.

È il caso, ad esempio, dell’Olpe Chigi (630 a.C., Museo di Villa Giulia) o del Vaso François (570 a.C., Museo Archeologico di Firenze), reperti dei quali Ghedini offre una dettagliata disamina, tesa a evidenziarne l’importanza documentaria ancor prima che artistica.

Uno dei capitoli più interessanti del libro concerne gli scrittori d’arte, tra cui vi era il retore Filostrato Maggiore. A lui dobbiamo la descrizione di un quadro con protagonista Atlante, che – con un ginocchio a terra – è oppresso dal peso del globo, su cui sono tratteggiati astri e costellazioni. Al Museo Archeologico di Napoli si conserva una replica scultorea di età imperiale chiaramente ispirata a una creazione ellenistica: si tratta del cosiddetto Atlante Farnese, che – tra un prestito e l’altro – è attualmente esposto al Mann sopra un’indecente base di compensato. A dimostrazione che per certuni lo sguardo dei moderni non vale quanto quello degli antichi.