«Quando c’è qualcosa di veramente forte contro cui combattere nascono anche fenomeni culturali molto importanti». È Stephen Beresford, sceneggiatore di Pride, a sostenerlo. Ed è così che la dama di ferro, Margaret Thatcher, ha finito per essere croce e «delizia» della storia inglese contemporanea. Se da un lato i suoi anni come primo ministro hanno avuto le conseguenze che tutti conoscono sull’economia, il lavoro e lo stato sociale, dall’altro nella nutrita schiera dei suoi oppositori sono nati fenomeni culturali e sociali di grande importanza.

Uno dei più importanti ce lo racconta proprio Pride di Matthew Warchus, in sala dall’11 dicembre nei panni di Davide contro i Golia della programmazione natalizia, che rischiano di assorbire tutto il mercato. La vicenda raccontata è talmente forte che sembra incredibile che nessuno in questi anni abbia pensato prima a farci un film, e riguarda l’alleanza tra un gruppo di attivisti per i diritti gay di Londra con i minatori del Galles in sciopero nel 1984. «Questa storia mi è stata raccontata 20 anni fa – spiega infatti Beresford – e sono rimasto stupefatto dal suo potenziale. Che degli attivisti gay facciano squadra con dei minatori mi sembra impossibile ancora oggi, figuriamoci 30 anni fa. Inoltre più approfondivo la storia e più mi accorgevo che non avrei dovuto inventare niente, le cose sono andate proprio come si vede nel film.

Certe anzi sono dovute restare fuori per questioni di tempi, come la campagna italiana di alcuni membri del LGSM (Lesbians and Gays Support Miners) che hanno portato indietro tanti regali offerti dagli italiani ai minatori gallesi. Nel Galles del 1984 nessuno però aveva mai visto un pacco di pasta, per cui hanno perfino fatto una riunione in comune per capire come cucinarla. Quando hanno capito che l’olio d’oliva non era una bevanda, ci hanno fritto i fusilli e li hanno mangiati come patatine». Come già in Grazie, signora Thatcher, i drammatici mesi dell’occupazione delle miniere, ma anche le difficoltà del mondo omosessuale che veniva etichettato dai giornali come «la feccia della società», e che cominciava a conoscere la piaga dell’Aids – uno dei protagonisti, Jonathan (Dominic West), è il malato di HIV numero 2 dell’Inghilterra – vengono raccontati attraverso una commedia. Benché lo sceneggiatore di Pride affermi giustamente che mettere insieme minatori e omosessuali contiene già un potenziale comico, questa è forse una delle caratteristiche della cinematografia britannica contemporanea, che affronta i temi più scottanti della propria storia presente e passata – si pensi anche al problema dell’immigrazione in un film come East is East – con fare divertito e cogliendo quasi sempre nel segno, mentre sarebbe ben difficile immaginare una commedia italiana attuale sugli Anni di piombo.

Commedia senza pretese ma riuscitissima, Pride ha anche un valore quasi didattico: «al di là di razza, cultura ed orientamento, tutti trovano qualcosa di forte in questa vicenda – sostiene uno degli attori, Andrew Scott – per cui forse siamo più simili di quanto pensiamo». E parla ad un presente in cui l’impegno politico è diventato più difficile, cooptato e forse sterilizzato da internet, «dove la politica si è rimpicciolita di fronte ai poteri delle banche, delle multinazionali eccetera» – come nota ancora Beresford – ma in cui le ragioni per far sentire la propria voce non mancano. Ad esempio il recente dibattito sull’immigrazione in Inghilterra: «Sono un internazionalista, penso che tutti dovrebbero essere liberi di andare dove vogliono – continua lo sceneggiatore – per cui è evidente che non posso certo sostenere le posizioni dell’UKIP» (il partito xenofobo inglese alleato al Parlamento Europeo del Movimento 5 Stelle, ndr).

E Pride è anche onesto nel non edulcorare troppo le crepe che attraversano i movimenti progressisti dei minatori e degli attivisti gay: come nella provincia gallese c’è chi non accetterà mai il sostegno omosessuale, al gay pride del 1985 le esternazioni politiche non sono viste di buon occhio e «si vorrebbe ridurre tutto a una festa, a un martedì grasso». D’altro canto, l’amarezza è insita nel film: il minatore interpretato da Bill Nighy osserva che se le miniere muoiono, i paesi di minatori muoiono con loro, ed oggi sappiamo a che cosa ha portato il pugno di ferro dell’iron lady. «Quei paesi sono morti – spiega Beresford – la gente ancora ci vive, ma non si può più chiamare vita, anche se lo spirito gallese è indomabile. Uno dei motivi per cui ho voluto fare questo film è che c’è stato un periodo in Inghilterra in cui era di moda ridicolizzare la working class, i ceti più poveri, dipinti come dei bruti; mentre dall’incontro con i veri minatori di Pride è emerso come spesso fossero persone colte, curiose, educate, con un’identità culturale molto forte che si poteva esprimere attraverso le poesie come nella cura che mettevano nel fare le loro bandiere. Tutte cose che erano però legate all’attività delle miniere e che con la loro chiusura sono scomparse».