In una breve introduzione alla poesia di Josif Brodskij, discutendo il legame – secondo lui incerto – fra il poeta russo e la tradizione americana, Mark Strand finiva avvertendo che la sincerità, in poesia, non corrisponde per forza a un discorso colloquiale o a una semplice confessione allo specchio. È qualcosa di più complesso, che avviene soprattutto in modi obliqui, non diretti. Anche perché, aggiungeva Strand, proprio leggendo Brodskij ci si accorge che «nothing can be known finally», niente può essere davvero conosciuto.
Forse queste poche righe possono aiutare anche il lettore di Strand e della sua lunga parabola poetica: un’avventura cominciata negli anni sessanta e terminata nel 2012, poco prima della morte, a New York, nel 2014. La sua scrittura in versi sembra, in effetti, profondamente segnata da una sorta di doppio legame fra l’urgenza di dire il proprio sé – anche attraverso dettagli intimi, come la messa in scena piuttosto frequente dei propri ricordi familiari – e, d’altra parte, la sensazione che in quegli stessi versi si possa ascoltare una voce che parla per tutti, un io per così dire sovrapersonale, capace di raggiungere punte talora vertiginosamente riflessive. Già nel suo primo libro del resto – Dormire con un occhio aperto, del 1964 – il tentativo di conoscere se stessi, rappresentato metaforicamente in un gesto essenziale come quello di guardarsi allo specchio, nell’intimità della propria casa, si risolve piuttosto in una scoperta inquietante: «Ti vuoi squadrare da capo a piedi. Ritto allo specchio, ti togli la giacca, sbottoni la camicia (…). Sconcertato, scruti lo specchio. Eccoti lì, tu lì non ci sei».

Un lemmario di parole-chiave
Il percorso di Strand è ora finalmente disponibile per intero in un «Oscar Baobab», Tutte le poesie (Mondadori, pp. 649, € 26,00), grazie alla traduzione di Damiano Abeni, con la collaborazione di Moira Egan. Fino a oggi, oltre a un paio di raccolte uscite nella collana dello «Specchio» mondadoriano (Uomo e cammello, 2007, Quasi invisibile, 2012), il lettore italiano poteva contare solo su due antologie di liriche pubblicate rispettivamente nel ’99 da Donzelli (L’inizio di una sedia) e nel 2006 da minimum fax (Il futuro non è più quello di una volta) – curate entrambi dallo stesso Abeni – e su poco altro. Il volume è peraltro intelligentemente accompagnato da due interventi dello stesso Strand, originariamente raccolti in un più ampio libro di saggi sull’invenzione poetica, The weather of words (2000): alcune Note sul mestiere della poesia e soprattutto, ad aprire l’insieme, L’alfabeto di un poeta, un breve lemmario composto di ventisei parole-chiave della sua poetica, fra cui spicca la prima, cioè Assenza («A volte – ma non sempre – è piacevole pensare che altre persone forse parlano di voi quando non siete presenti (…). È quello che accade alle celebrità. E ai morti. Possono essere gli animatori di una festa senza mai nemmeno farvi apparizione»). Del resto Assenza è un termine decisivo per tutta la grande poesia occidentale – e per la lirica, dai Trovatori al Novecento, essa prende soprattutto le forme della distanza incolmabile dal tu amoroso. Ma in Strand il tema sembra assumere uno spessore più decisamente filosofico, che può coinvolgere addirittura una definizione di sé. La grande attenzione anglosassone all’oggetto concreto è spesso destinata a convivere, qui, con la potenza seduttiva dell’elemento astratto, per esempio in Motivi per muoversi (1968): «In un campo / io sono l’assenza del campo. / È /sempre così. / Ovunque sia / io sono ciò che manca. (…) Tutti abbiamo motivi / per muoverci. / Io mi muovo / per tenere insieme le cose»: una poesia fatta quasi solo di componenti «vuote», dove non solo l’«io» ma persino il «corpo» sembrano sciogliersi, risolversi in concetto. Già qui è ben visibile la lezione di quello che è forse il riferimento più importante per Strand, ovvero Wallace Stevens.
Se si dovesse indicare un punto propizio per osservare l’orizzonte su cui si staglia questa grande esperienza di poesia, si potrebbe indicare proprio l’ultimo libro di Strand, il già citato Quasi invisibile. Forse non se ne può parlare come di una raccolta riassuntiva, ma è vero che certe ossessioni tematiche tornano puntualmente a farsi sentire. Così come torna a farsi sentire – e in maniera mai così intensa – la tentazione della prosa (siamo in effetti di fronte a una raccolta fatta esclusivamente di poèmes en prose), che aveva tuttavia già trovato uno spazio non trascurabile nei decenni precedenti, per esempio nell’impegnativo Monumento (1978), in cui era fortissimo il dialogo coi propri maestri, da Shakespeare a Robert Penn Warren; o in un pezzo dal titolo significativo come Poesia narrativa, estratto dal libro forse più rappresentativo di Strand, La vita ininterrotta (’90). Pur nelle maglie più larghe della forma prosastica la scrittura di Strand non perde in eleganza e in ironia – altra sua arma essenziale – né rinuncia, tuttavia, a quel senso di mistero nascosto nel reale che pare prevalere su tutto il resto, come in questo diamantino passaggio, in cui di nuovo inconoscibilità del mondo e ispezione della propria interiorità si sovrappongono: «Lasciai i campi assolati della mia vita quotidiana e mi calai nella montagna cava, e là scoprii, al colmo del suo gelido splendore, il castello di vetro della mia altra vita. Potevo vederci attraverso, e oltre, ma a che mi serviva? Era perfetto, immutabile e senza alcun valore, eccetto per il fatto che esisteva» (C’era una volta una fredda mattina di novembre).

Il padre morto aleggia
Un’analoga aura enigmatica avvolge, in questo libro, una figura fondamentale come quella del padre morto, la cui presenza aleggia e si fa perturbante in una poesia-prosa come Il misterioso arrivo di una lettera inconsueta: questa costituisce quasi il compimento di una linea di poesia «familiare» che vede uno dei suoi punti più alti nella intensa Elegia per mio padre, un testo in sei momenti non a caso affidato a un libro come La storia delle nostre vite (’73), nel quale svolge addirittura la funzione di testo d’esordio, di nuovo battendo sul tasto dolente ma fertile della privazione («Le mani erano tue, le braccia erano tue, / ma tu non c’eri. / Gli occhi erano tuoi, ma erano chiusi e non si aprivano»). Non sarebbe difficile notare come il padre e la madre si alternino e si incontrino continuamente nella lirica di Strand. Ma, soprattutto, si consiglierà al lettore di affrontare, al contempo, un altro saggio consegnato a Weather of words: penso al bellissimo Fantasia on the relations between poetry and photography. Qui si incrociano, in fondo, le due linee cui si è già accennato – assenza e ‘romanzo familiare’ – perché protagonista di queste pagine è proprio il padre (e si aggiunge allora, attraverso la fotografia, l’interesse del poeta per la tradizione figurativa, che pure è un altro tratto condiviso con lo Stevens di The necessary angel, mentre sarà appena il caso di ricordare che Strand è anche l’autore di uno splendido libro di letture dedicate ai dipinti di Edward Hopper). Colpisce questa suprema coerenza, l’insistenza di alcuni nuclei o immagini ritornanti, quasi come tracce mnestiche. E colpisce, soprattutto, che da una scrittura di grande rastremazione intellettuale si sprigioni una lirica naturale, nella quale perizia della forma e autenticità convivono, dentro l’intensità di una voce che si è sempre sentita vicina al congedo: «Volevo partire per un immenso viaggio, viaggiando giorno e notte entro l’ignoto (…). Io continuavo a fissare il soffitto, poi d’improvviso sentii un getto d’aria fredda, e scomparvi».