«La campagna aerea più precisa della storia»: così Charles Brown, generale Usa, ha definito tempo fa l’operazione della coalizione in Siria e Iraq. I rapporti dalle zone di guerra raccontano altro: civili ammazzati, basi dell’esercito siriano colpite, postazioni Isis mancate. L’ultima strage risale a due giorni fa: 26 civili sono stati uccisi nel villaggio di Al-Khan, nord est della Siria. Tra loro 7 bambini e 4 donne, secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani.

Lo stesso giorno un presunto raid della coalizione aveva centrato un campo dell’esercito governativo, uccidendo tre soldati. Washington continua a negare (come ha negato ieri il massacro di Al-Khan) e accusa l’alleato del presidente Assad, la Russia: il Pentagono «è certo» – dice un funzionario anonimo – che ad uccidere i militari siriani sia stata Mosca. Per errore, informazioni sbagliate, poco importa: l’essenziale è intorbidire le acque, aumentare un caos già ingestibile così da dialogare con un minimo di potere negoziale. I cieli siriani, dopotutto, sono assai trafficati: francesi, britannici, siriani, russi, israeliani, turchi. Ci sono tutti e le informazioni che giungono da terra, da chi quei raid li subisce, finiscono per mescolarsi e sovrapporsi. Non solo i cieli: ieri un sottomarino russo, equipaggiato con missili Kalibr, è stato avvistato lungo le coste siriane, nel mar Mediterraneo.

Al traffico non corrisponde necessariamente un alto livello di efficacia. L’Isis resta più o meno dov’era un anno fa, con una sostanziale differenza: nelle zone occupate ha dato vita ad entità amministrative capaci di gestire risorse, tasse, servizi. Lo fa con la paura, la repressione, la propaganda. Ma la realtà è questa: più difficile combattere un nemico che da milizia armata si è fatto simil-Stato. Guardiamo ai numeri: il flusso di nuovi adepti stranieri è raddoppiato in 12 mesi. Dalla fine del 2014 ad oggi sono entrati in Siria e Iraq tra 27mila e 30mila nuovi miliziani, provenienti da 86 paesi diversi. A disegnarne un bilancio è Soufan, centro di ricerca che fornisce servizi di intelligence a governi e istituzioni internazionali.

A poco servono i deboli sforzi per frenare l’afflusso alle braccia del “califfo”: la propaganda interna, il denaro e la convinzione di essere parte di un progetto globale attraggono combattenti da tutto il mondo. Lo scorso anno erano 12mila; la coalizione ha dichiarato di averne uccisi 20mila ma continuano ad arrivare: 5mila dall’Europa; 4.700 dalle ex Repubbliche sovietiche; 8mila dal Maghreb; altri 8mila dal resto del Medio Oriente.

Raqqa, Mosul, Deir Ezzor, Palmira: distribuiti in ogni centimento dei territori controllati dagli islamisti. Riyadh appare lontanissima, come lontane sono le opposizioni, riunite nella capitale saudita sotto l’ala di re Salman. Si è aperta ieri la conferenza che dovrebbe mettere pace tra le tante anime dei gruppi anti-Assad, in vista degli attesi negoziati di gennaio. I delegati sono 150, tra loro spiccano la Coalizione Nazionale (in esilio) e il Comitato di Coordinamento Nazionale (basato a Damasco e relativamente tollerato dal governo).

L’obiettivo è uscire con una posizione unica e un team di 25 negoziatori, superando le divisioni che hanno caratterizzato gli ultimi anni e hanno costretto i rispettivi gruppi armati all’angolo. A Riyadh ci sono anche gruppi islamisti sostenuti da sauditi e turchi: l’islamista Jaish al-Islam e il salafita Ahrar al-Sham (che con i qaedisti di al-Nusra ha dato vita all’alleanza Jaish al-Fatah), non proprio dei moderati. A non essere neppure invitate, invece, sono quelle forze che all’angolo non sono mai finite: i kurdi siriani. Controllano buona parte del nord est della Siria, stanno spingendo verso ovest, hanno costretto l’Isis alla ritirata ma non sono i benvenuti.

Messi sullo stesso piano di al-Nusra, ma esclusi per altre ragioni: se il braccio siriano di al-Qaeda non è stato chiamato per non far infuriare la comunità internazionale che lo cataloga come organizzazione terroristica, le Ypg e le Ypj restano fuori perché non rientrano nella visione futura della Siria immaginata dal Golfo, che più di ogni altro ha infiammato la guerra civile siriana favorendo gruppi di opposizione islamista. I kurdi di Rojava – visti dalla Russia e dalla coalizione occidentale come validi alleati anti-Isis – sono considerati dalle opposizioni vicini a Damasco perché combattono per l’autonomia e per un progetto democratico alternativo, piuttosto che per rovesciare il presidente.