Come per il mito omerico di Polifemo anche stavolta il nome del colpevole è «nessuno». Ma la sentenza che tre giorni fa a Bonn ha respinto la domanda di risarcimento di decine di famiglie afghane non è una leggenda. È una storia vera relativa a fatti del 2009, quando aerei della Nato, chiamati in soccorso da un colonnello tedesco, bombardarono nella provincia afghana di Kunduz centinaia di persone che tentavano di spillare gasolio da due autobotti, poco prima sequestrate dalla guerriglia. Kunduz è l’esempio più orribile dei tanti «effetti collaterali» di una guerra non ancora finita.

Il tribunale ha respinto l’istanza degli afghani sostenendo che non c’è alcuna prova che il colonnello tedesco che chiese il sostegno aereo per colpire i dirottatori talebani delle due autobotti di gasolio (poi promosso generale), abbia violato le sue regole d’ingaggio. Secondo l’accusa, incarnata da Karim Popal, un avvocato afghano-tedesco che rappresentava 79 vittime – delle 137 complessive -, invece la colpa è manifesta e i parenti chiedono legittimamente i danni alla Germania che, al momento, ha compensato le famiglie – e nemmeno tutte – solo con 5mila euro ciascuna. Famiglie che chiedono invece un riconoscimento dignitoso e dunque oltre tre milioni e che inoltre contestano quel versamento di buona volontà: «I soldi furono dati a un’assemblea di uomini in cui si intrufolò gente che non c’entrava nulla. Nessun indennizzo a vedove e orfani – ha detto Popal in un’intervista a Euronews – e nemmeno tutti coloro che rappresento hanno ricevuto quell’indennizzo». Di «buona volontà» appunto. I giudici però hanno dato ragione al ministero della Difesa tedesco per il quale il colonnello Georg Klein, che chiese il sostegno aereo, rispondeva a ordini impartiti nell’ambito della missione Nato in Afghanistan e non agiva dunque esclusivamente per conto di Berlino. Insomma la Germania si gira dall’altra parte e sottoscrive la parola «nessuno» per i tedeschi. Infine, per tutto il resto e cioè la Nato, è possibile trincerarsi dietro un conflitto di competenze: il tribunale di Bonn non potrebbe affrontare un tema che tira in ballo leggi internazionali. Non lo riguarda e passa la palla. Gli afghani non si fermeranno e ricorreranno a un tribunale più elevato, poi alla Corte europea.

La strage avvenne nella notte tra mercoledi 3 e giovedi 4 settembre 2009 alla una e 49. La zona è quella di Kunduz, nel Nord dell’Afghanistan, presidio dei militari tedeschi. La ricostruzione dei fatti dice che un gruppo guerrigliero (la zona è controllata dall’Hezb-e-islami di Gulbuddin Hekmatyar) sequestrò due autobotti dirette a rifornire magazzini Nato. Uno degli autisti sopravvissuto raccontò che i guerriglieri (o banditi?) si impantanarono con un mezzo sulla riva di un fiume. I guerriglieri allora fecero sapere alla gente del vicino villaggio di Omar Khail, dove forse erano diretti, che potevano prendersi il gasolio. E’ una vecchia storia che si ripete e l’attacco alle autocisterne ha almeno un precedente noto, l’anno prima a Gazni: con vittime e decine di ustionati.

Sul posto intanto arrivarono due F-15 chiamati dai tedeschi. Aspettarono l’ultimo segnale che arrivò inesorabile, nonostante le perplessità di uno dei piloti americani. I caccia sganciarono due bombe da 230 chili l’una, nome in codice Gbu-38. I due camion cisterna andarono a fuoco e con loro decine di poveracci accorsi a spillare il combustibile. Quanti morti? Quanti erano guerriglieri, quanti civili? All’inizio le vittime furono novanta. Poi il bilancio oscillò tra 60 e 150. Per Abdul Wahid Omarkhel, allora governatore del distretto settentrionale di Chardarah, le vittime sarebbero state 130, mentre testimoni oculari raccontarono all’agenzia Pajhwok che, sul luogo dell’attacco, non si trovavano guerriglieri ma solo la folla chiamata a dividersi il bottino. Da altre fonti invece, gli uomini armati presso le autobotti erano una quarantina. Difficile desumerlo dai resti carbonizzati.

Per Javier Solana, allora capo delle diplomazia Ue, era un «episodio terribile». Il segretario della Nato Rasmussen promise «piena luce». La Gran Bretagna sollecitò un’inchiesta e in Germania scoppiò un piccolo terremoto: in novembre arrivarono le dimissioni del capo dello stato maggiore dell’esercito, generale Wolfgang Schneiderhan, e del sottosegretario alla difesa, Peter Wichert. Poi quelle del ministro del lavoro, Franz Josef Jung, titolare della Difesa all’epoca dei fatti. Li accusava un video pubblicato da Bild dove si vede bene la folla attorno ai camion. Tutti sapevano dunque. Ma «nessuno» è responsabile.