Cori ritmati da percussioni hanno coperto ieri il consueto rumore dei clacson di piazza Omonia, snodo centrale del traffico ateniese. Scandendo «Stop racism» e «Open the borders» alcune migliaia di manifestanti hanno attraversato la città nella giornata internazionale contro il razzismo – circa 70 le manifestazioni in vari Paesi. Al centro della protesta le politiche migratorie dell’Unione Europea, in particolare gli accordi con i paesi terzi e la chiusura delle frontiere: quell’insieme di misure più che dissuasive, a dispetto del quale i migranti continuano a mettersi in viaggio.

Tra questi proprio ieri almeno in 16, tra cui 7 bambini, hanno perso la vita nell’Egeo mentre cercavano di raggiungere l’isola greca di Agathonisi. Avevano preso il largo dalle coste turche, attraversando quel lembo di mare al centro dell’accordo tra Unione Europea e Turchia. Siglato esattamente due anni fa, questo ha in buona parte arrestato il flusso di migranti che dalla Turchia raggiungevano l’Unione europea arrivando in Grecia. Un «successo» che è costato all’Europa finora sei miliardi di euro – versati ad Ankara in due tranche della stessa portata, l’ultima proprio lo scorso giovedì -, e a circa 60.000 migranti la libertà di movimento e la perdita dei diritti fondamentali.

«L’accordo ha fatto della Grecia un terzo paese sicuro all’interno, come la Libia, ma all’interno della Ue», è il duro giudizio di Nassim, attivista afgano in corteo insieme al collettivo del City Plaza Hotel. Una forma di respingimento sta alla base dell’intesa: i migranti «irregolari» che compiono la traversata dalla Turchia alle isole greche sono rimpatriati in territorio turco. «Una misura temporanea e straordinaria necessaria per porre fine alle sofferenze umane», recita il testo del Consiglio europeo del 18 marzo 2016. Nella pratica i migranti sul territorio greco possono presentare domanda d’asilo, in caso sia considerata ammissibile hanno il diritto di restare, in caso contrario sono respinti. Allo stesso tempo viene costituita una ulteriore frontiera interna alla Grecia, segnata dalle cinque isole dell’Egeo: Lesbo, Chios, Samos, Lero e Kos. I migranti che vi approdano non posso raggiungere la Grecia continentale prima che la loro richiesta d’asilo sia processata. In questo lasso temporale sono costretti negli hotspot, centri di contenimento istituiti ad hoc.

Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr circa 46.000 migranti si trovano sul territorio della Grecia continentale. Sono soprattutto mediorientali: siriani, afgani, iraniani, iracheni, curdi – molti di loro hanno sperimentato di persona la repressione e l’offensiva della politica di Erdogan. Schiacciati tra il blocco del confine turco-greco nell’Egeo e la chiusura dei confini territoriali della rotta balcanica, non hanno molte chance di raggiungere un altro paese europeo.

 

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Tra di loro a manifestare nella capitale greca c’è Siavash, iraniano, arrivato dalla Turchia dove ha vissuto per alcuni anni con lo status di rifugiato. Si è dovuto spostare in Grecia a seguito delle intimidazioni ricevute per il suo attivismo politico. Da alcuni mesi cerca senza successo di presentare domanda d’asilo. Vivere nell’illegalità e richiedere protezione internazionale sono nella quotidianità due facce della stessa medaglia. Potrebbe riuscirci a breve: «Ma in fin dei conti per cosa? La politica europea ci ha tolto la possibilità di immaginare il futuro», giudica con amara consapevolezza.

La sua condizione è rosea in confronto a quella delle circa 14.000 persone – secondo i dati dell’Unhcr relativi ad ottobre 2017, sottostima del numero attuale – imprigionate negli hotspot delle isole. Il loro sovraffollamento è costante, a causa dei continui sbarchi di migranti e dei lunghi tempi d’attesa burocratici. L’hotspot di Moria, a Lesbo, è quello più grande. Avrebbe dovuto contenere tra le 800 e le 1.000 persone, ce ne sono più di 6.000 – più della metà di loro ha passato il secondo inverno in una tenda. Donne, bambini, uomini, malati e disabili, costretti nelle stesse condizioni: non sono garantiti sicurezza, privacy, accesso ai servizi igienici, né acqua e cibo in quantità adeguate. A guardia del tutto la polizia greca, spesso salita alla cronaca per episodi di violenza. Lo stato di violazione dei diritti umani è denunciato dalle organizzazioni internazionali, così come dagli attivisti locali, che hanno lanciato la campagna #OpenTheIsland. Non stupisce che, arrivato alla sede della rappresentanza della Commissione europea, il corteo sia terminato al grido unisono di «criminali».