1918: finisce l’immane carneficina della Prima Guerra Mondiale. Vent’anni dopo Benito Mussolini annuncia a Trieste l’emanazione delle leggi razziali. Un altro salto di dieci anni ed entra in vigore la Costituzione repubblicana che sancisce il ritorno alla libertà e alla democrazia e pone fine alla tragedia della dittatura e della guerra; i nuovi confini orientali producono l’esodo degli italiani d’Istria e di Dalmazia. L’Associazione Nuovo Corso di Monfalcone ha deciso di commemorare la fine della Grande Guerra affidando al jazzista Giovanni Maier la preparazione di un concerto. Anziché concentrarsi sulla data centenaria si è deciso di ampliare lo sguardo a tre date simboliche: 1918, 1938, 1948.

Il progetto si è arricchito con il contributo del fotografo Luca d’Agostino, sodale di lunga data del musicista. D’Agostino ha fotografato i quattro musicisti convocati dal contrabbassista, Lauro Rossi, Flavio Brumat, Francesco Ivone e Urban Kušar, in altrettanti luoghi: il fiume Isonzo, le trincee del Carso, Villa Coronini a Gorizia, il monumento alla Resistenza Partigiana a Šempeter in Slovenia. Sono immagini potenti che raccontano attraverso la forza materica della pietra e del legno una natura testimone severa della follia umana.

Gli scatti, accompagnati da alcune riflessioni dei musicisti e da testi di altri amici scrittori, sono diventati una mostra nel locale Il Carso in Corso che ospiterà il 21 giugno la presentazione del progetto musicale.Per chi vive in questa parte d’Italia la Storia degli ultimi cent’anni è materia ancora viva e pulsante. Incrocia le biografie delle persone, si materializza nel territorio, alimenta l’immaginario. Giovanni Maier è uno dei protagonisti del jazz italiano degli ultimi trent’anni. Strumentista richiesto dai maggiori maestri come Enrico Rava e Roberto Ottaviano, compositore e leader di proprie formazioni, didatta. Vive nell’isontino, a Turriaco, dove si è trasferito dalla vicina Staranzano nella quale è nato nel 1965. Questa zona è chiamata bisiacarìa e vi si parla una variante del dialetto veneto. La sua famiglia è originaria di Visinada d’Istria, un paese dell’interno della penisola, oggi in territorio croato. Nel 1948 i genitori lasciano la propria casa e vanno ad ingrossare la colonna degli esuli che si spostano in Italia. Il padre per il viaggio costruisce con le proprie mani un baule di legno. La foto del baule è il centro emotivo di tutto il progetto.

Giiovanni Maier

«La mia famiglia aveva subito diverse tragedie durante la guerra. Il marito della sorella di mio papà è stato fucilato dai tedeschi in una rappresaglia seguita ad una azione partigiana a Pisino. Lo avevano trovato con una bandiera rossa, però lui era semplicemente un ferroviere e quella bandiera era uno strumento di lavoro. Il fratello di mio papà è morto durante la guerra in Libia. Mio padre era stato mobilitato dalla Todt ( l’impresa di costruzioni dei tedeschi usata a supporto dell’esercito nazista, ndr) e poi al suo ritorno dopo qualche hanno lo stesso fecero gli jugoslavi. A quel punto, nel 1948, tirava una brutta aria per gli italiani e mio padre decise di esodare in Italia. Insomma sono stati bastonati sotto il fascismo e poi, dopo che l’Istria è passata alla Jugoslavia, bastonati dai comunisti. Questo baule è un simbolo perché il suo volume era quello che le autorità avevano assegnato a chi se ne andava; tutto ciò che potevano portare con sè. E lo è anche perché conteneva quello che mi ha trasmesso, la sua eredità: per prima cosa l’amore per la musica. Lui era un musicista dilettante ma molto appassionato. Suonava il clarinetto, la fisarmonica e altri strumenti nella Banda e in complessi da ballo. Il primo brano che mi ha insegnato è Cielito lindo, un pezzo messicano molto popolare ai suoi tempi».

Cielito Lindo figura tra i brani della suite che verrà presentata. Giovanni Maier ha infatti deciso di costruire un progetto dove Storia collettiva e Storia intima si mescolano. Sceglie brani di repertorio che dialoghino/confliggano tra di loro come la pacifista Gorizia tu sei maledetta e la marcia militare Alte Kameraden. Per ricordare l’orrore delle leggi razziali utilizza due proprie composizioni originali di ispirazione klezmer: 1938 e L’inafferrabile fascino dell’incompletezza. ù

Maier insegna al Conservatorio Giuseppe Tartini di Trieste, città sede dell’unico campo di sterminio in territorio italiano: la Risiera di San Sabba. «Io sono di possibile origine ebraica. Abbiamo in famiglia fatto delle ricerche ma non siamo riusciti a risalire oltre il 1884. Il nonno di mio nonno era nativo della Carinzia e si sposò con una Demitris che veniva da Creta. Mio nonno fece la guerra con l’esercito austriaco nei Carpazi (dove venivano destinati i residenti al confine con l’Italia per paura che solidarizzassero con il nemico, ndr). Quando i tedeschi presero mio padre un ufficiale lo fermò chiedendogli se con quel cognome non fosse ebreo. Poi per fortuna lo lasciò stare. Ho deciso di evocare il mondo istriano prevedendo un mio solo di contrabbasso dove lavoro sulla scala istriana. È un mondo musicale particolare. A cinquanta chilometri da Trieste esiste una musica che sembra provenire dalla Mesopotamia! Una scala con microintervalli non temperati che produce un suono davvero straniante. Anziché riprendere i motivi tradizionali istriani ho preferito poi usare mie composizioni che si riferiscono alla musica popolare come le villotte e che mi permettono di portare nella suite una atmosfera alla Albert Ayler con le sue fanfare e marcette».

Infatti il trattamento che Maier riserva ai brani originali o di repertorio si rifà alla tradizione dell’avanguardia storica di Ayler, Eric Dolphy e dell’Art Ensemble of Chicago. La conduzione della musica è multidirezionale, con ogni musicista stimolato a fare deragliare il discorso verso nuove prospettive. Il collegamento, tematico o ritmico, con la memoria popolare è sempre presente ma rielaborato con il linguaggio del jazz di ricerca. Per quanto riguarda l’attualità il musicista sottolinea: «il dramma dei migranti e la mia impossibilità di accodarmi all’odio generale nei loro confronti se non altro perché la mia famiglia nel corso degli anni ha migrato e io devo portare rispetto a queste persone».

Un progetto sonoro, testuale e visuale che ci restituisce tutta l’estrema complessità del «Secolo breve»al confine orientale. Una storia che per essere compresa necessita di uno sguardo ampio per districare il groviglio di rancori e dolore che rischia di alimentare nuovi nazionalismi e divisioni sull’onda delle suggestioni sovraniste fomentate da una destra sempre più aggressiva e tendenzialmente egemone. È importante tenere sempre insieme la dimensione privata e quella pubblica: i movimenti delle masse che partecipano o subiscono i grandi sommovimenti e le persone concrete in carne ed ossa. Per fare questo il jazz, con la sua irriducibile natura dove devono necessariamente convivere ed esaltarsi a vicenda individualismo e spirito collettivo, è straordinariamente utile.