C’è sempre un’inquietudine che cova nella noia della provincia marchigiana dei racconti limpidi di Massimo Gezzi, Le stelle vicine (Bollati Boringhieri, pp.144 euro 15), poeta di lunga data al suo esordio di narratore, anche quando le cose sembrano andare bene nella routine iperrealistica fatta di pezzi di vita colti dentro la meccanica sociale, epifanie che all’improvviso trovano un loro culmine parossistico e imprevedibile, un punto di rottura esistenziale e stilistico.

SONO STORIE ORDINARIE di vita quotidiana di taglio classico e realistico, dalla scrittura finemente elaborata e dalla lingua esatta, pur non prive di una loro ruvidità e crudezza esistenziale, rivelata da un parlato secco dal ritmo veloce, che però all’improvviso trovano un momento di verità che diventa visione, un agguato che la vita tende a uomini e donne per portarli nel vortice del loro destino e allo scoperto, mettendoli a nudo come nelle short stories di Carver, di Cheever o di Sherwood Anderson, o comunque della provincia americana più profonda che ormai si rispecchia inevitabilmente anche nella nostra. Sono i lampi, le epifanie della poesia del quotidiano che l’autore porta dentro la sua prosa creaturale, nel contesto del paesaggio lirico e lunare delle Marche del sud, zona rurale di colline fiabesche e di ciabattini del distretto calzaturiero che dall’età dell’oro e dell’arricchimento facile degli anni del boom sono adesso precipitati nel gorgo di una crisi economica e morale, nell’abisso cieco e spietato del mondo globalizzato, come l’imprenditore Tomassini, il protagonista del racconto che dà il titolo all’intera raccolta, sprofondato nei debiti che delira davanti alla fabbrichetta prima della fine.

GEZZI È ATTRATTO dalla vita ordinaria, dalla routine e da tutto ciò che è uguale per tutti, le ambientazioni dei suoi racconti le sentiamo nostre contemporanee, così come i suoi personaggi, l’infermiera che vigila sul corpo di una paziente moribonda in un padiglione d’ospedale, i ragazzini e la gita in barca di una battuta di pesca visionaria, il professore di filosofia malato di cancro, la ragazza vessata da un insidioso stalker che infila di notte messaggi amorosi nella sua cassetta delle lettere, l’automobilista rancoroso e smemorato che ha ucciso una donna, Renato che ha il malcaduto e tifava l’Elpidiense del grande Albertosi, il sabato sera di un gruppo di giovani in un bar di paese di «Cinghiale», un racconto di grande forza espressiva e tenuta stilistica, che per qualcuno di loro finisce male, i quali sembrano gli stessi che giocano al calcio e lanciano i motorini in «Un rettangolo di sole», o assistono a una furibonda lite di un coetaneo con il controllore in un autobus al ritorno dalla scuola. Testi che mostrano la rara capacità del narratore di raccontare ed entrare in sintonia con il mondo inquieto della nuova gioventù di fine secolo, nei suoi riti e trasgressioni a volte cupi e vitalistici, l’antica rabbia autodistruttiva di chi abita le periferie.

I PERSONAGGI di Gezzi, quelli di queste storie, li amiamo e ci inquietano allo stesso tempo non solo perché sono abilmente descritti, perché le narrazioni sono avvincenti, crude, realistiche, inclementi, per il loro rigore formale, ma soprattutto perché li sentiamo vicini a noi, sono gli abitanti dei nostri quartieri, sono le persone che incontriamo al supermercato, all’uscita di scuola, nel posto di lavoro, al cinema, ai quali diamo l’amicizia su Facebook, sono il nostro vicino di casa, quello che segretamente spiamo dalla finestra e di nascosto ci spia.