Tra i gangli di quelle che furono le Ferriere Fiat, retaggio visibile di un passato non così remoto, si è svolta l’ultima edizione di Terra Madre Salone del Gusto, che ha scelto – per il suo ritorno in presenza – il Parco Dora, prima periferia torinese ed ex zona industriale riconvertita, come arcipelago di storie, sapori e istanze. Ed è stata una festa, popolare e sfaccettata. Con 350 mila passaggi di visitatori e 3 mila delegati provenienti da 130 Paesi. È tra questi ultimi, in quel magma vivo e colorato formato da contadini e contadine, pescatori, pastori e piccoli produttori, che abbiamo ritrovato un senso delle cose.

MURILO DA SILVA MACHADO ARRIVA DAL BRASILE, è nato e cresciuto nella regione Xingu, stato del Pará, nel cuore della foresta amazzonica. È giovane, 26 anni e un figlio di 2, ma ha una lunga storia di impegno alle spalle ed è uno degli ultimi parlanti della lingua del popolo Juruna, a cui appartiene. Lingua che difende come pure il diritto alla sovranità alimentare: «Fin da piccolo seguivo mio papà nelle attività agricole, dalla semina alla raccolta. I prodotti della terra, in poche parole il cibo, sono fondamentali per quello che sono diventato e in cui credo. Ho sempre vissuto in modo slow ben prima dell’incontro con Slow Food. La manioca, da cui si ricavano farine e bevande fermentate, è un nostro simbolo. Un cibo sano, molto diverso dal fast food che dilaga, invece, tra le giovani generazioni dei nostri villaggi con un aumento di malattie dovuto proprio al cambio di regime alimentare».

RACCONTA CHE «IL GOVERNO BOLSONARO ha peggiorato la vita delle popolazioni dell’Amazzonia» e «sul tema della demarcazione ha esacerbato il conflitto, da un lato ci sono gli indigeni che sanno tutelare la biodiversità, dall’altra i latifondisti che espandono le loro monoculture cariche di Ogm e gli allevamenti intensivi». Poi, tra le varie resistenze del popolo Juruna, c’è la lotta contro un mostro di cemento «la diga di Belo Monte che porta corruzione, minaccia la sopravvivenza dei popoli indigeni e devasterà la foresta, condannando a morte pesci e pescatori locali». Una storia che ricorda quella contro cui si batté Berta Caceres, a cui è stata dedicata una delle due arene di Terra Madre (l’altra intitolata a Gino Strada). E nel frattempo ci passa accanto Clayton Brascoupé, nativo americano Mohawk/Anishnabeg, direttore del Traditional Native American Farmers Association, associazione no profit che coinvolge contadini, orticoltori, educatori e professionisti della salute. Un’autorità. Ha con sé del piki bread, pane indigeno a sfoglia leggerissima prodotto con mais blu, ci tiene a sottolinearne il colore. «Coltiviamo ad alta quota, a Tesuque nel New Mexico, diverse varietà di mais come tante di fagioli, di zucche, meloni e pomodori. Amiamo la diversità. Cerchiamo di proteggere questi alimenti, promuovendoli e tramandando il sapere dei nostri anziani. C’è da troppo tempo un problema di alimentazione nelle nostre comunità con un incremento del diabete. Dal 1992 coinvolgiamo i nostri giovani in agricoltura e da quando fanno parte dei processi agricoli la salute è complessivamente migliorata».

MUNA ASOUS, 22 ANNI, E SUA MAMMA Wadha Asous sono donne orgogliose e coraggiose. Sono di Burin, villaggio della Cisgiordiania a sud di Nablus «circondato dai coloni». Vivono una situazione di tensione continua. «Per andare nelle nostre terre dove coltiviamo gli olivi dobbiamo chiedere il permesso al governo israeliano e veniamo costantemente aggrediti dai giovani occupanti, che ci rubano le olive a fine raccolto. Gli attacchi sono sempre più aggressivi, il culmine è stato nel periodo pandemico quando non c’erano con noi attivisti internazionali né media». Mentre parla, Muna mostra le immagini delle violenze dei militari, che prendono di mira il villaggio «attaccando anche le scuole». È un’attivista convinta: «Non lascerò mai la mia terra, sarebbe come dargliela vinta». Durante il lockdown – quando era tutto chiuso e l’accesso al cibo più difficile – ha chiesto alla madre, che ha una fattoria, «di organizzare workshop per insegnare alle donne che non coltivavano a realizzare un piccolo orto e a trasformare così i prodotti che crescevano».

GRAZIE ANCHE AGLI INSEGNAMENTI DI SAAD DAGHER, anche lui delegato a Terra Madre. Produttore di olio, agronomo umanista, considerato il padre dell’agroecologia in Palestina, è portavoce della comunità slow food Olives in Mazari Nubani a Ramallah: «L’agroecologia è una via di libertà che acquisisce ancora più senso in una situazione di privazione come la nostra. Lo è perché libera le persone da molte cose. Producendo buon cibo non soffriranno più di molte malattie. Saranno libere dalla chimica e dai suoi costi, dal controllo sulle sementi, dai consumi eccessivi di risorse idriche controllate dagli israeliani e dalla monocultura».

A «TERRA MADRE» CI SI SPOSTA FACILMENTE da un angolo del mondo all’altro. Yamna Agaliou ci porta verso l’Atlantico, costa sud del Marocco nei pressi di Agadir. È una raccoglitrice di cozze, insieme a più di sessanta donne si è riunita in una cooperativa e con Slow Food stanno per lanciare il presidio delle cozze affumicate tigri. Tigri è una parola berbera che significa frutti di mare nonché la fase lunare in cui è possibile raccoglierli: «Da agosto a giugno raccogliamo le cozze in base alle maree, le affumichiamo ed essicchiamo in spiaggia. Una tecnica che ci è stato tramandata e non vorremmo che si perdesse. Rispetta l’ecosistema perché le cozze non sono allevate ma selvatiche ed è di basso impatto. Essere in cooperativa ci permette di essere solidali tra di noi, dividere il raccolto e mettere insieme le forze. Questa è un tipo di cozza che si trova solo nei nostri mari. Qui, a Terra Madre, ho avuto modo di conoscere storie simili come quella di Taranto».

LUCIANO CARRIERO GUIDA UN TENACE GRUPPO di miticoltori protagonista della resurrezione di un settore che, dopo i guai ambientali, grazie al Presidio Slow Food della cozza nera è riuscito a rilanciare un’attività in chiave sostenibile nel Mar Piccolo di Taranto: «Il disciplinare non garantisce soltanto la tracciabilità e la qualità del prodotto, ma anche il rispetto dell’ecosistema marino». Sono tutte esperienze che a Torino si sono messe in connessione con altre. Claudia Ruiz, chef e portavoce dei Ricercatori Gastronomici del Chiapas comunità Slow Food, in Messico difende la cucina indigena: «Hanno invaso i nostri territori. Oggi il nostro compito è riportare la gastronomia dei popoli indigeni al centro della tavola e far sapere che siamo parte della società e dell’equilibrio della biodiversità. Abbiamo così tante conoscenze che, se si perde un seme si perde una cultura, se si perde una pianta si perde una medicina».