Due storie di editoria che si leggono volentieri (quando succede, è meglio non lasciarsi sfuggire l’occasione). La prima ha al centro una piccola casa editrice di Montréal, Mémoire d’encrier, che ha puntato sulla diversità quando ancora non era una parola d’ordine mediatica, riuscendo a imporsi come uno degli spazi editoriali più interessanti del Québec e in genere del mondo di lingua francese. Ne scrive sulla rivista canadese «The Walrus» Amanda Perry, spiegando che «il successo di Mémoire d’encrier è tanto più evidente nel contesto della presunta omogeneità culturale del Québec e della pervasiva whiteness dell’industria editoriale». Fondata nel 2003, la casa editrice pubblica circa venticinque titoli l’anno, proponendo, accanto ad autori francofoni (quebecchesi, haitiani, africani, francesi) e anglofoni (dalla canadese di origine thailandese Souvankham Thammavongsa allo statunitense Ocean Vuong, tradotto pure in Italia), molti esponenti delle letterature indigene, dei quali – osserva Perry – è diventata forse il maggior promotore in lingua francese. Tra loro, le autrici innu Naomi Fontaine e Joséphine Bacon, e la scrittrice e musicista Leanne Betasamosake Simpson, della nazione indigena anishinaabe.

Anche il personale della casa editrice, composto da sei redattori a tempo pieno, riflette questa diversità, a partire dal direttore editoriale e fondatore, Rodney Saint-Éloi, che, nato e cresciuto a Haiti, ha studiato a Montréal e vi si è poi stabilito nel 2001.
L’avvio della casa editrice, ricorda, non è stato semplice, ma i risultati di critica e di vendite hanno confermato la forza del suo progetto, che Saint-Éloi riassume così: «Io prendo tutto ciò che è considerato periferico e lo metto al centro, perché penso che la rivoluzione dei libri consista nel fatto che non è più possibile continuare a ignorare il mondo».
Protagonista della seconda storia (anche questa, in qualche modo legata alla diversità, e intercettata in un mare di pessime notizie) è lo statunitense Tom Engelhardt, che da una ventina d’anni gestisce il sito «TomDispatch», sottotitolo: «un regolare antidoto ai media mainstream». Nato come attività parallela, il sito ha finito per occupare, come spesso succede, gran parte del suo tempo, ma Engelhardt è in origine un noto e rispettato editor.

Tra le sue esperienze più importanti, il lavoro presso la leggendaria Pantheon Books di André Schiffrin, dove ha tra l’altro proposto e seguito la pubblicazione di Maus di Art Spiegelmann. E appunto di com’è nato uno dei graphic novel più belli e fortunati della storia dell’editoria Engelhardt scrive su «TomDispatch» in risposta alla scuola rurale del Tennessee che ha bandito il libro per linguaggio inappropriato e nudità.
Fu una collega a portargli Raw, la rivista dove Spiegelmann aveva cominciato a pubblicare l’embrione del futuro Maus, insieme alla proposta più articolata di un memoir in cui l’illustratore avrebbe raccontato per immagini la deportazione a Auschwitz dei suoi genitori.

«Ricordo distintamente che il progetto era stato rifiutato da ogni editore possibile e immaginabile» racconta con orgoglio Engelhardt, che non si fece scoraggiare (anzi) e nel giro di pochi giorni arrivò alla convinzione che «un mondo senza questo libro sarebbe stato un mondo più povero». Sulle vendite né lui né Schiffrin avrebbero scommesso, ma il libro uscì, e sappiamo com’è andata a finire. Non solo, la storia continua: il bando della scuoletta del Tennessee ha riportato Maus in cima alle classifiche perché, nota Engelhardt, «se vuoi far leggere un adolescente, la cosa migliore è vietargli un libro».
Tutto è bene quel che finisce bene? Insomma, speriamo (e non vale solo per il bando di Maus).