Gianfranco Pedullà ha portato a compimento nel Teatro delle Arti la trilogia dedicata all’Italia Dopo Salò. Per le prime due parti (Arcitaliani dedicata alla caduta di Mussolini, e Mille brividi d’amore sugli anni 60) è stato Massimo Sgorbani a scrivere i testi, ora lo stesso Pedullà è oltre che regista autore, in questi due atti appena andati in scena dedicati il primo agli anni 70 e il secondo agli anni 80 con la mutazione nazionale favorita e infine realizzata dal berlusconismo.

Ed è una bella sorpresa, ancor più oggi che tra la morte di Riina e la nuova incriminazione di Berlusconi e Dell’Utri si delinea più netto quel passaggio epocale. Così come la famosa affermazione di Pasolini «Io so», oggi ha un possibile fondamento nella corrispondenza epistolare intercorsa tra il poeta e il terrorista nero Ventura. Nonostante il recente quarantennale della morte di Pasolini abbia inondato di abbondante retorica il personaggio, fa piacere vederlo e ascoltarlo quale filo conduttore di quegli anni, a partire dalla celeberrima Scomparsa delle lucciole che allo spettacolo di Pedullà dà anche il titolo.

Torna perfino rassicurante, per chi lo vide camminare felpato e discreto per Roma, nell’impermeabile di pelle marrone e con gli occhiali scuri che rendono Marco Natalucci, che lo interpreta, perfino più somigliante di Ranieri nel film di Grieco. Ma il vero colpo di genio che arroventa l’atmosfera è il Valzer della toppa che senza mediazioni ci riporta nel cuore di quegli anni (e Rosanna Gentili è davvero brava a indossare la fisicità di Laura Betti, rendendocene per intero l’amarezza e l’ironia).

Se a Pasolini, con i suoi versi e i suoi interventi corsari e spietati, tocca appunto il ruolo di guida tra stragi e depistaggi, altri episodi significativi irrompono a gelare quegli anni nella memoria. Da una parte Giusva Fioravanti, che prima del delirio reazionario attorno alla strage di Bologna, ci viene mostrato «bambino ideale» nella edificante sitcom Rai La famiglia Benvenuti, tra Enrico Maria Salerno e Valeria Valeri come papà e mamma; poi una zoommata crudele sull’arresto domestico del brigatista Walter Alasia, con lo scontro a fuoco tra lui e i due poliziotti, e i loro tre cadaveri sotto agli occhi sgomenti dei genitori. Anni contraddittori e politicamente violenti, che lo spettacolo ci riporta in gola per suggestioni inequivocabili.

Al confronto la seconda parte dello spettacolo rischia di esser meno rivelatrice, perché allungandosi fino ai primi 90, si tramuta in un circostanziato affondo su come dal paese da bere si passò al marchio berlusconiano che ha gravato per un intero ventennio. Anche se, pur ricordando bene quegli anni del grande imbonitore (o dei molti imbonitori, compresa la Vanna Marchi di un gustoso cammeo), non mancano particolari e punture di coscienza che non sempre teniamo lucide, da don Puglisi alle stragi siciliane, ai perversi meccanismi dello show tv.

Si tratta insomma di uno spettacolo molto denso, ricco e documentato, che sotto la maschera ridicola e divertente del come eravamo procura un malessere non superficiale. E un impietoso paragone con l’oggi che di quel passato prossimo è figlio diretto. Utilissimo anche per gli studenti: parafrasando Arbasino «la brutta époque, ad uso delle scuole».