La legge su cui, secondo l’antropologia, si fonda la cultura patriarcale prevede che la donna sia oggetto di scambio tra padri, fratelli e futuri mariti, che sia oggetto, possesso. Lorena Spampinato fa qualcosa di diverso dal ribadirla, la racconta, incarnandola in una storia e nei suoi personaggi. Tresa, prima di tutto, la ragazzina a cui si deve il titolo del romanzo Il silenzio dell’acciuga, edito da Nutrimenti (pp. 239, euro 18).

QUESTO SOPRANNOME non deriva solo dalla magrezza, come viene spontaneo credere, ma da una sovrapposizione, un’ambivalenza semantica. In dialetto siciliano acciuga si dice «mascolina» ed ecco che l’accostamento tra il pesce e la ragazzina si carica di senso. Con schiaffi e repressione, poco altro, a Tresa è stato infatti insegnato dal padre rimasto vedovo che l’unico modo accettabile che la figlia femmina ha di comportarsi prevede l’adattarsi a quello del fratello gemello Gero. Ciò comporta una mimesi che non si limita all’andatura, al modo di guardare il mondo, ma coinvolge anche l’aspetto esteriore: i vestiti, i capelli «alla maschietto».

Per buona parte del romanzo Tresa, che è consapevole della catena di errori in cui la sua sola nascita l’ha inserita, se ne rammarica, restando incapace di cambiare. Spampinato decide di potenziare con la chiarezza del linguaggio questa condizione che Tresa ha condiviso con milioni di altre donne, utilizzando l’immagine delle radici, raccontando, però, come nel discorso delle origini scorra solo il volere maschile. «Lo sapevi, esordì di colpo, che la lunghezza delle radici equivale all’altezza della pianta? Forse anche noi abbiamo radici che si allungano mentre cresciamo». A parlare così a Tresa è Giuseppe, colui che diventerà proprio a seguito di questo dialogo sulle radici, il suo «pensiero fisso». Tresa, però, quando si trova ad ascoltare questo giovane di ventiquattro anni tentare di sedurla con il pretesto di un albero di limoni ha solo undici anni.

Il suo diventare ragazza, allora, l’accesso alla pubertà, alla femminilità che già tanto era stato minato perché senza madre e con un padre che le attribuiva in quanto femmina una possibilità maggiore di suscitargli vergogna, si fonda sulla consapevolezza che: «forse era questo che accadeva alle donne, pensai. Si trovavano d’un tratto avvolte da un occhio sconosciuto: un grande occhio maschio che imponeva il suo sguardo ovunque».

A PERMETTERLE DI INIZIARE a definirsi, di «tracciare dei contorni» che la separino dall’indefinito in cui si sente da sempre, è la sua voce, quando inizia a dire la sua, ma non basta. Serve aiuto. La relazione con un’altra donna: «fu Rosa a iniziarmi all’universo femminile». E neanche questo è sufficiente: a salvare Tresa dalla condizione di sotterramento a cui la condanna la legge delle radici patriarcali, nella Sicilia agricola degli anni ’60 in cui è ambientato il romanzo, è il modo in cui Rosa sa amarla, che la capisca. Rosa è la zia di Tresa, ma non è certo il legame di sangue a dare garanzie, bensì che è: «una padrona una donna che non solo non subiva il potere degli altri, ma lo esercitava». Ed è molto saggia questa scelta di Spampinato di non far discendere il coraggio di Rosa dalla sola bontà d’animo, ma anche da una condizione di reale privilegio e consapevolezza. E poi c’è Gero, il gemello dizigote di Tresa che deve combattere, dal suo lato del campo, la lotta contro un ideale maschile violento e repressivo e affrontare la difficoltà, che deve essere immane, di rifiutare il modello dell’uomo dominante, discostarsene. Così, attraverso questa rappresentazione della dualità, semplice, ma efficace e ben costruita, Lorena Spampinato ci ricorda che non c’è ingiustizia nei cuori delle vittime, dei ragazzini.