Poche settimane fa alla Biennale di Venezia si è vista la versione originale di Chi ha ucciso mio padre, il testo autobiografico di Edouard Louis, che lo stesso autore ha realizzato e interpretato sotto la guida e le invenzioni di Thomas Ostermeier. Una autoconfessione struggente e affascinante, e a tratti anche divertente. Ora quel testo trova una sua versione italiana (all’India, fino a domani) molto diversa dall’originale, con Francesco Alberici, diretto da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. La «rabbia» di questo figlio appare assoluta e senza sbocchi, anche mentre si sfoga contro un cumulo di sacchi neri di immondizia, dalla cui lacerazione sembrano uscire reperti esistenziali. La vicenda del figlio che viene rifiutato, perché omosessuale, dal padre, operaio modello e politicizzato, sembra frutto di una maledizione assoluta e negativa, manca ogni gioia nella conquista della libertà filiale del sesso (che vuol dire anche conquista dell’autonomia e di una sua Parigi), mentre viene calcato il tono sulla sua infanzia, sempre repressa e duramente perseguitata. Non viene fuori chiaramente la «reciprocità» inversa che lega le vicende di padre e figlio, due percorsi al contrario, che si incrociano solo alla fine, tra la conquista del figlio della propria libertà, non solo sessuale, e la infelicità feconda del padre, che arriverà a capirlo quando vittima del lavoro e delle leggi di mercato del capitale, vedrà cadere il proprio ordine politico e mentale, e verranno fuori i nomi dei governanti di Francia, di destra e di sinistra, che della sua fine sono responsabili. Forse la regia di Deflorian e Tagliarini non doveva limitarsi all’apparente distacco, quasi ineluttabilità, che governa nei propri lavori il rotolare del mondo.