La «storia delle emozioni» ha oggi il suo posto nelle indagini storiche, ma pone problemi particolari quando la si applica a culture lontane, nel tempo e nello spazio. Nelle Annales del 1941, Lucien Febvre si chiedeva «Comment reconstituer la vie affective d’autrefois». L’agile studio di Sarah Rey, Le lacrime di Roma Il potere del pianto nel mondo antico (Einaudi «Storia», trad. di Maria Lorenza Chiesara, pp. XII-164, € 24,00), mostra che l’indagine, estesa agli antichi, non fornisce per ora risposte del tutto convincenti. Apparentemente l’autrice sì è proposta di abbattere una falsa rappresentazione di Roma: l’immagine fatta di nerboruti contadini-legionari, proconsoli astuti e/o corrotti, matrone rigide, tutti e tutte serissimi, con un fortissimo controllo dell’espressione dei sentimenti. Ma il libro rivela invece che a Roma le lacrime erano frequentissime: nel culto, nella politica, nella pratica oratoria, nella riflessione filosofica, fino alla svolta cristiana. Effettivamente, nelle pagine di Cesare e di Livio, di Virgilio e di Tacito, si piange spesso: oltre che, naturalmente, nelle iscrizioni funerarie (qui, va pur detto, le lacrime sono prevedibili e abbondanti).

Il raccolto di passi significativi è ampio e però un poco confuso, per chi si aspetti un approccio storico. Aneddoti biografici, scene poetiche o epiche, eventi pubblici, documenti privati, monumenti figurativi (pochi) vengono combinati insieme per comporre il quadro complessivo. Non ci si dà troppo pensiero di cronologia, o di «qualità» dell’informazione, e con insistenza si propongono frasi che vorrebbero essere memorabili, e suonano invece piuttosto banali: perché ‘piacione’ («Il buon governo porta con sé la dimostrazione della propria forza, ma anche della propria dolcezza»), o perché apodittiche («I Romani sono sentimentali»). Comunque, un modo che collide con il savio e ironico monito di Umberto Eco a «non generalizzare mai». Frequente il ricorso a metafore bislacche: «Nei discorsi, le lacrime sono ‘fiori di retorica’ che crescono talvolta come la gramigna: grazie a essi l’oratore si veste a festa con poca spesa». Che significa? Oppure: «l’uomo di Stato tanto quanto il comune cittadino si gettano nella realtà a piè pari, senza risparmiarsi». Meglio sarebbe risparmiare queste frasi. La traduzione, si crede, segue lo stile dell’originale. Certo, tutti i lettori che incontrano i «peteliani» vi riconosceranno senza sforzo gli abitanti di Petelia, celebre centro calabrese…

Vi è nel libro anche un altro elemento caratteristico, che proviene dall’etnografia antica, o forse dall’antropologia moderna (oppure dalle scuole di scrittura creativa?). È l’uso costante dei verbi al presente. Un attacco come «All’inizio degli anni Sessanta del I secolo a.C., Giulio Cesare piange ai piedi di una statua di Alessandro Magno» suggerisce la veridicità fattuale di un aneddoto di dubbio valore storico, che al più rinvia al rapporto di Cesare (e di altri condottieri romani) con il «mito» di Alessandro. Il verbo al presente ne fa la sceneggiatura di una docufiction, ma questo è un libro di storia (lo dice la collana in cui viene pubblicato)! Certo, «il buon uso delle lacrime in politica» è una realtà documentabile per antichi e moderni, ma può dire qualcosa di utile sul «codice emotivo» dei romani, solo se si indaga l’origine dell’informazione, la natura della «fonte» (ma queste sono forse ubbìe di inveterato storicista): non tanto di «fonti» (sources, Quellen) pare occuparsi l’autrice – che pure professionalmente insegna storia antica –, quanto di «testi», sostanzialmente equipollenti e sincronici, ossia a-cronici.

Così si mostra in Rey la lezione dell’antropologia storica francese (Vernant, Detienne…). E tale impostazione del discorso riesce in più aspetti condizionante. Già la «separazione» rispetto al mondo greco risulta non motivata, anche se poi si richiama l’apporto della retorica o della filosofia greca sul farsi del linguaggio emozionale romano. Poi c’è il problema dell’età arcaica: l’archeologia non aiuta molto, e la scarsa documentazione induce inferenze dubbie. Circa un discorso che Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.) attribuisce al re Tarquinio il Superbo (VI sec. a.C.), l’autrice conclude che «l’arte oratoria sembra già nota ai Tarquini». Davvero non si tratterà di ricostruzione fittizia? Più in generale, il tema del pianto ha spesso bisogno di essere considerato nel quadro di un «codice» più ampio. Lo era nel caso della storiografia (dove l’influsso di modelli può prevalere sul carattere documentario), come nel caso della parola pubblica. Non era solo questione di genere o di età, ma di contesto: piangere in tribunale era diverso dal piangere davanti al vincitore, e il punto non era certo nella «sincerità», quanto nell’adozione di linguaggi ritualizzati condivisi tra le parti e comprensibili agli astanti.

I casi dubbi si potrebbero moltiplicare. Che cosa significano le lacrime attribuite a personaggi semi-leggendari come Camillo? Se la tradizione afferma che Scipione pianse mentre veniva distrutta Cartagine, quanto pesano la forma di «aneddoto», l’esigenza di «comunicazione», la posa letteraria o scaramantica o topica? Agli occhi di chi, durante le proscrizioni, le lacrime avrebbero resi «vili» i proscritti? Quando Cicerone invitava i giurati a guardare le lacrime del suo assistito, quale codice si attivava? E a chi era rivolto il pianto di Cesare al Rubicone? Nel caso di quest’ultimo episodio l’argomantazione s’appoggia, caso raro, a una triade di auctoritates moderne. Piuttosto eterogenea però, e non spiegata (Carcopino, Étienne, Canfora): così agiva anche Plutarco, ogni tanto. Sarà certo stata arida la storia delle istituzioni o della guerra, ma i ragionamenti su elementi sfuggenti come le emozioni hanno un evidente vantaggio: è difficile dimostrarli erronei. Prendere at face value ciò che si legge nei testi antichi però complica l’approccio a qualsiasi episodio controverso. Un esempio minore basterà.

La figura del dinasta Moagete, che affrontò i romani in Anatolia nel II secolo a.C., è trattata seguendo solo il racconto di Livio (38,14), che drammatizza un passo di Polibio (21,34). Ne esce un infido levantino che supplica un generale romano, cercando con lacrime finte di tirare sulla taglia imposta dall’avidità romana. Giustamente si coglie il pregiudizio xenofobo del passo: gli «orientali» sono mentitori. Ma andrebbe detto che Gneo Manlio Vulsone aveva con sé un esercito e che minacciava di mettere a sacco la città: con quali altri mezzi il tirannello avrebbe potuto scongiurare l’evento? Il fatto è che questo libro funziona quando maneggia testi «teorici»: le sezioni migliori, estranee al sospetto di «impressionismo», sono quelle relative alla filosofia e al cristianesimo. Nel primo caso, perché il controllo delle passioni predicato dalle filosofie post-socratiche fa capire a rovescio quale fosse il giudizio delle élites, che è correttamente contrapposto agli orientamenti dei più. Nel secondo perché viene bene spiegato come la «rivoluzione» che il cristianesimo indusse nelle scale valoriali emerge con efficacia nella sua radicalità: ora il pianto «giusto» era quello dei martiri, dei fedeli e dei penitenti, mentre «sbagliato» diveniva quello dei pagani o degli eretici.

Il libro di Sarah Rey in definitiva contribuisce a una «storia della debolezza», alla costruzione di un pensiero «molle» (di pianto). Difficile dire se Roma fosse, come qui si conclude, una «società piangente». Certo, sui pianti dei grandi romani non erano mancate in passato le riflessioni. Petrarca sapeva che «Cesare, poi che ’l traditor d’Egitto/ li fece il don de l’onorata testa,/ celando l’allegrezza manifesta,/ pianse per gli occhi fuor, sì come è scritto»; Shakespeare fa dire a Marco Antonio che «When the poor cried, Caesar cried too». Nemmeno questi erano testi di storia, ma certo lo stile aveva nobile grandezza.