Alias

Storia della fabbrica salvata dagli operai

Storia della fabbrica salvata dagli operaiPasticceria Melegatti in piazza Bra a Verona, anni '60

Il Libro "Lievito Madre" di Silvino Gonzato racconta la battaglia e la vittoria della Melegatti di Verona

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 6 luglio 2019

Arrivati alla fine del libro, nessun dubbio ha più ragione di esistere. Matteo è Sandokan e Yanez insieme, Davide Tremal Naik, Michele Kammamuri. I lavoratori sono i tigrotti; il gazebo di San Giovanni Lupatoto l’isola di Mompracem persa e riconquistata; l’amministratore delegato Emanuela Perazzoli il governatore James Brook. Accostare la realtà di una battaglia operaia e di un’industria dolciaria, la Melegatti, al mondo fantastico degli eroi di Emilio Salgari, non ha nulla di azzardato e di irriverente. La Melegatti è nata a Verona, città dello scrittore, e ha rischiato il suicidio poco distante, a San Giovanni Lupatoto. Il libro che ne racconta la vicenda, Lievito madre, Storia della fabbrica salvata dagli operai, pubblicato da Neri Pozza, riconoscimento speciale della giuria del Premio Biella Letteratura e Industria 2019, è stato scritto da uno dei massimi esperti della vita e delle opere di Salgari, Silvino Gonzato, editorialista del quotidiano L’Arena. Gonzato, è un accostamento corretto, il nostro? «Direi che ci sta. Una delle ragioni per cui ho scritto il libro è che mi interessano tutte le cose che si ottengono lottando insieme. I romanzi di Salgari finiscono di solito con una vittoria. E gli operai della Melegatti sono riusciti a vincere». Altro rimando all’epopea salgariana arriva dalle divinità (Brahma, Visnù, Kalì…) sovente centrali nelle avventure della tigre della Malesia. La dea della Melagatti si chiama Lievito Madre. Dal 1894 non ha mai smesso di generare, ne è sufficiente una piccola porzione, milioni di esemplari di pandoro, il dolce su cui, per fortuna, continueranno a poggiare le fortune dell’azienda. Confessa Gonzato «Non avevo la più pallida idea di cosa fosse. Il nome poetico, Lievito Madre, il fatto che senza quel lievito non si potesse produrre nemmeno un pandoro, mi portavano a pensare che lo conservassero in una sorta di tabernacolo. E invece mi sono trovato davanti un grumo di pasta bianca da un paio di chili, dentro un secchio, avvolto nel cellophane. La pasta è fatta di batteri che se ne nutrono. Perché non muoia, viene alimentata ogni due giorni con acqua e farina, in gergo ‘una rinfrescata’. fino ad aumentarne il volume di un chilo. Dopo la pesatura, torna nel secchio». Questo rito si celebra identico da centoventicinque anni; da quando, cioè, iniziò a praticarlo Domenico Melegatti. Nei dodici mesi di presidio dei lavoratori, lo hanno compiuto a turno Matteo, Michele e Davide, dentro la fabbrica ferma, silenziosa, vuota; ignorando il freddo, le domeniche, le feste. La loro tenacia ha fatto notizia in Italia e nel mondo, contribuendo alla salvezza dell’azienda. La storia della Melegatti somiglia, per un suo lungo tratto, a tante storie industriali di provincia, soprattutto nel settore alimentare. Domenico Melegatti muore nel 1914, senza figli. Il laboratorio – pasticceria passa alla nipote Irma e a suo marito, Virgilio Turco. Con la loro scomparsa subentrano i quattro figli. Carolina sposa Giulio Ronca. Le due famiglie avviano nel dopoguerra un cammino tutto in discesa. Le ordinazioni crescono al punto da richiedere una sede più grande; la Premiata Casa del Pandoro si trasforma in una Srl, si dota di una rete di rappresentanti, partecipa alle fiere; la spinta pubblicitaria di Carosello ne fa, con il panettone, il dolce -simbolo del Natale; nel 1983 apre lo stabilimento di San Giovanni Lupatoto. Nonostante la crisi degli anni ’90, vendite e conti tengono il passo. Ma nel 2008 Emanuela Perazzoli, vedova di Salvatore Turco, il figlio di Carolina e Giulio, assume la carica di amministratore delegato e scatena quella che Silvino Gonzato definisce nel suo libro la Dynasty italiana «Litigavano i padri, litigavano figli e nipoti…. La lite era un marchio di famiglia, come il pandoro. Controversie e veleni incrociati che alla fine spinsero l’azienda nel baratro». E aggiunge a voce «Credo sia un caso unico, questo, di un’azienda che si è sfasciata per le liti al coltello dei suoi proprietari». Tra le scelte a dir poco discutibili di Perazzoli, l’acquisto della Nuova Marelli di San Martino Buonalbergo, con l’investimento di quindici milioni di euro in macchinari per la produzione di biscotti e croissant. La cerimonia di inaugurazione si svolge il 4 febbraio 2017, ma i macchinari non entreranno mai in funzione. Sei mesi dopo, la Nuova Marelli chiude, e gli stipendi smettono di arrivare. Le ‘momentanee difficoltà’, dichiara l’amministratore delegato, saranno presto risolte da un grande acquirente. Compare all’orizzonte, e presto sparisce, il marchio della Ferrero. Il lievito dei debiti pesa trenta milioni di euro A settembre sindacati e lavoratori hanno chiaro che nel 2017 il pandoro non si farà. In ottobre si monta il gazebo. C’è da difendere la sopravvivenza e la Melegatti. Ricorda Gonzato «Tutte le volte che andavo al gazebo, mi ripetevano ‘La Melegatti è nostra ci lavoriamo noi, i prodotti li facciamo noi, siamo noi che la dobbiamo salvare’. Confesso di non aver mai sentito prima rivendicazioni di questo tipo. Ne rimasi stupito». Le pagine di Silvino dal gazebo sono le più belle: ritratti di uomini e donne la cui esistenza è stata sconvolta da qualcosa che mai avrebbero pensato potesse accadere; cronache di giorni passati a parlare di trattative e ipotetici compratori; a confessare ansie e paure; ma anche a discutere di un film o di un libro, a dividere lì un pranzo per rendere meno triste la domenica. Matteo, Davide, Michele continuano a rinfrescare il Lievito Madre, un modo concreto di tenere viva la speranza. Che si accende quando un fondo maltese si fa avanti con sedici milioni, sei da investire sui pandori, gli altri sulle colombe pasquali. Una vera e propria gara di solidarietà scatenata dai social fa registrare a Natale il tutto esaurito. Ma le colombe di Pasqua non volano, il fondo si ritira. È ora di rimontare il gazebo, cui si affaccia, sono gli inizi di febbraio 2018, la Hausbrandt, gigante triestino del caffè. Vuole comprare la Melegatti, ma deve capire se esistono le condizioni per una trattativa in cui sono decisivi il tribunale e l’amministratore delegato, la signora Perazzoli. A inizio maggio anche Hausbrandt si ritira dopo aver scoperto la voragine finanziaria. Il 26 il tribunale dichiara il fallimento. La Melegatti va all’asta, base diciotto milioni. Nessuno si presenta. Qualcuno, però, continua a guardare da lontano Sandokan che è anche un po’ Yanez, Tremal Naik e Kammamuri. Sa che per nessuna ragione, come gli altri compagni di fabbrica, mai tradirebbero il loro compito. Così, nella seconda asta, la famiglia Spezzapria presenta la sua offerta. E vince. Emanuela Perazzoli l’aveva messa alla porta nel 2016, giudicandola incompetente. Spezzapria vuol dire Forgital, fornitore di componenti per il razzo europeo Ariane V. Congegni che sarebbero piaciuti a Salgari. Non è dato di sapere se la famiglia, che per la Melegatti ha costituito un’apposita società, la Sominor, per prima cosa abbia reso omaggio alla dea, il Lievito Madre. Viene da pensare di sì. Perché da li tutto è cominciato, e tutto ricomincerà.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento