«Quando si dice magistero della natura, quando si dice Provvidenza, si accenna a un gran sistema, che non esclude nessuna creatura (…) e il tutto coordina all’uomo»; è «questa grande legge di coordinamento di tutto il creato che va studiando il naturalista», cioè «quel concetto dell’insieme che fu dal principio nel pensiero di Dio». Colpisce in queste frasi l’aspirazione a conciliare forze diverse se non opposte. Non tanto ‘Dio’ e ‘natura’, termini che la tradizione filosofica ha potuto associare in un rapporto di equivalenza (Deus sive Natura è la formula emblematica della dottrina di Spinoza); e in fondo neppure scienza e fede, nel cui dialogo molti continuano a credere.

L’attrito maggiore non è insomma tra il piano fisico e quello metafisico.  Il contrasto più forte, in base ai modelli della conoscenza contemporanea, è invece tra l’idea della natura come sistema, come insieme in cui ogni elemento è coordinato a un altro, e il finalismo antropocentrico. Oggi forse chiameremmo ecosistema quel concetto dell’insieme, ricorrendo a un termine che per definizione esclude la centralità dell’umano, o tutt’al più la ammette solo come fattore di alterazione e danno.

Ma all’epoca in cui furono scritte le frasi citate qui sopra, parole come ecosistema o ecologia non erano ancora diffuse in italiano, e la scienza a cui si riferiscono muoveva i primi passi. L’estratto da cui siamo partiti proviene infatti da un capolavoro della letteratura divulgativa ottocentesca, pubblicato per la prima volta nel 1876 e ora in libreria in un volume di pregio sia per la veste editoriale, sia per la qualità della curatela: Antonio Stoppani, Il Bel Paese Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia, a cura di Walter Barberis (Einaudi «I millenni», pp. XLIV-604, euro 85,00).

Nato a Lecco nel 1824 da una famiglia di artigiani, quinto di una numerosa serie di fratelli, Stoppani era entrato a undici anni in seminario a Milano, per proseguire gli studi di retorica, filosofia e teologia prima a Seveso, poi a Monza e di lì nuovamente nella capitale lombarda. Formatosi nella dottrina rosminiana, condivise le prospettive di conciliazione fra Stato e Chiesa; nel ’48 aderì alle ragioni indipendentiste, partecipando attivamente alle Cinque giornate.

Allontanato dal seminario, si dedicò alle scienze, già coltivate privatamente (possedeva tra l’altro una collezione di reperti fossili). Nel 1855 contribuì a fondare la Società geologica milanese e nel 1861 fu nominato professore di geologia all’Università di Pavia, per passare poi all’Istituto tecnico superiore di Milano. Autore del Saggio di una storia naturale dei petroli e di articoli nel «Politecnico», appassionato viaggiatore (presiedette la sezione milanese del Club alpino italiano), diede alle stampe nel ’76 quel Bel Paese che sarebbe diventato uno dei più grandi e duraturi successi editoriali nella storia d’Italia.

Riprova della diffusione presso un pubblico ampio e vario fu l’adozione del titolo, che Stoppani aveva a sua volta ripreso da Dante («del bel paese là dove ’l sì suona», Inf., XXXIII, 80) e soprattutto da Petrarca («il bel paese / ch’Appennin parte e ’l mar circonda et l’Alpe», Canzoniere, CXLVI, 13-14), come nome di un formaggio a pasta morbida: il Bel Paese di Galbani, tutt’ora in commercio.

manifesto pubblicitario Galbani del 1958

La peculiare fortuna del titolo dipende almeno in parte dalla vocazione stessa del libro di Stoppani, concepito proprio per mettere in dialogo tradizione e modernità, potremmo anche dire: letteratura e industria, entrambe inscritte nel programma pedagogico che Il Bel Paese delinea.

Anche per questo il brano riportato all’inizio è emblematico: l’allusione alla manzoniana Provvidenza serve a riconsiderare quel valore integrandolo in una visione della natura quale fornitrice di risorse (Stoppani dedica per esempio molte pagine alle fonti energetiche fossili e geotermiche del sottosuolo) e insieme donatrice di ristoro morale.

Le une e l’altro sono utili all’uomo che sappia trarne vantaggio con l’ingegno operoso e l’adesione fisica e spirituale al paesaggio, specialmente quello alpino.

La convergenza del piano materiale e di quello ideale spiega anche i costanti riferimenti al poema dantesco, in cui Stoppani sembra cogliere la corrispondenza tra il verso e la concreta oggettività del reale evocato, figura di quell’implicazione fra i saperi – poesia e scienza – che ha un modello proprio nella Commedia.

Un’incisione dalla prima edizione di Il Bel Paese: «Il Vesuvio visto da Napoli durante la grande eruzione del 1822»

Concetto dell’insieme è dunque un’espressione che ben definisce anche la relazione tra le diverse discipline che devono concorrere a formare gli italiani; tra le prime intenzioni di Stoppani, come spiega Barberis nell’eccellente saggio introduttivo (Le terre della Nazione), c’era infatti quella di educare i giovani «alla conoscenza di sé, muovendo non solo da una letteratura orientata alle scienze morali e politiche, ma anche alla divulgazione delle esperienze scientifiche: esperienze pratiche, fonte di verità inoppugnabili e produttrici di una coscienza comune, che dicessero a tutti come le Alpi e gli Appennini, i vulcani, i soffioni gassosi, le fontane ardenti e gli altri svariatissimi fenomeni naturali fossero parte integrante di un carattere nazionale».

Per raggiungere lo scopo, lo scienziato-narratore costruisce una cornice novellistica, distribuendo la materia delle sue ‘lezioni’ sulla natura in ventinove serate, nel corso delle quali racconta i propri viaggi e scoperte a una schiera di nipoti sempre più curiosi e impazienti di ascoltare, di settimana in settimana, le storie del Bel Paese.

E non solo di quello, per la verità, perché il filo del racconto – che si sviluppa seguendo grosso modo la conformazione dell’Italia da nord a sud, dalle Alpi ai grandi vulcani, lungo le rotte percorse dal narratore – si dirama a volte verso altre terre. Nel panorama nazionale s’inseriscono così vedute di scorcio su altri continenti e culture, tratteggiate con inevitabile orientalismo, dati i tempi, ma anche con un certo buon senso relativistico.

Il fine delle digressioni, anche di quelle più esotiche e avventurose, non è infatti la meraviglia ma la conoscenza.

La forma canonica, quella del ‘trattenimento dei piccini’, che Stoppani adotta per familiarizzare con i lettori, non scade mai nel «romanzo scientifico» alla Jules Verne, genere che nella premessa Agli institutori viene definito «mostruosa miscela di vero e di falso», capace di suscitare la «vergognosa passione» perfino di «uomini serî». I limiti del cosiddetto romanzo scientifico, osserva Stoppani, sono analoghi a quelli del romanzo storico; la differenza, aggiunge, è che il primo non ha ancora «trovato il suo Manzoni». Il modello da seguire è piuttosto Alexander von Humboldt (1769-1859), il grande naturalista ed esploratore tedesco, autore degli «splendidi Quadri della natura».

La questione verrebbe oggi espressa nei termini del confronto tra fiction e non fiction, che interessa specificamente il racconto della natura, del paesaggio e dell’ecologia; obiettivo di molti scrittori contemporanei è proprio trasferire questa materia nella dimensione realistica, anche attraverso la narrazione non fittiva.

Basta questo per leggere Stoppani come un precursore dell’Antropocene letterario? In effetti, si ricorda spesso come l’autore del Bel Paese abbia definito «antropozoica» l’epoca più recente nella storia della Terra, anticipando il termine e il concetto di Antropocene in uso da un paio di decenni. Nel libro, del resto, ci s’imbatte spesso in osservazioni sul consumo della natura, che anticipano i temi del moderno dibattito ecologico: la dinamica dello scioglimento dei ghiacciai e le escursioni della temperatura atmosferica; la drastica riduzione di certe specie messe sotto pressione dall’«addensarsi della popolazione» umana; l’alterazione dei paesaggi alpini a causa di quel fenomeno sociale che in seguito si sarebbe chiamato ‘turismo’.

D’altra parte, la prospettiva di Stoppani dipende dalla sua cultura positiva, per molti aspetti incompatibile con la nostra: lo stesso aggettivo ‘antropozoico’ implica una centralità dell’umano, già in evidenza nel brano citato all’inizio, estranea alle coordinate del pensiero ecologico contemporaneo. Ma sarebbe sbagliato valutare Il Bel Paese sulla base della sua minore o maggiore attualità; anziché applicarvi filtri anacronistici, vale la pena riscoprirlo per altri aspetti: l’invito alla conoscenza del territorio in chiave non localistica e pubblicitaria, ma concreta e consapevole; l’organica convergenza delle culture, scientifica e umanistica; la funzione sociale e civile dell’educazione.