E ora che l’ordinanza firmata da Zingaretti mette a disposizione della Capitale tutti gli impianti Tmb del Lazio al massimo delle loro capacità, anche nei weekend e nei festivi, pur di superare l’emergenza rifiuti – che registra un buco di mille tonnellate al giorno di indifferenziata non smaltita (delle 4600 giornaliere prodotte in città) e un ristagno di 500 tonnellate al dì nei cassonetti, senza contare l’azzeramento dello spazzamento manuale dei marciapiedi e la giacenza di montagne di immondizia ai piedi dei cassonetti vuoti – i cittadini romani possono rasserenarsi e programmare di nuovo passeggiate in città senza paura di essere morsi dai topi?

LA RISPOSTA È OVVIA e la sapete tutti, soprattutto perché non c’è alcuna emergenza a Roma ma un problema strutturale, noto almeno da quando il sindaco Marino fece quell’importante passo di chiudere la più grande discarica d’Europa che impoveriva tutti e arricchiva uno solo. L’incendio che ha devastato il Tmb di via Salaria ha solo accelerato la sua chiusura, che era inevitabile per via della sua vicinanza alle abitazioni. Dunque il problema è chiaro e sui suoi contorni sono tutti d’accordo. Le divergenze cominciano quando si prospettano le possibili soluzioni.

Ci sono i sindacati Cgil, Cisl e Uil che annusano l’aria, sentono puzza di smantellamento dell’Ama in favore di Acea, la multiservizi ambientali a capitale misto, e lanciano un appello affinché venga invece rilanciata l’azienda per la raccolta dei rifiuti di proprietà del Comune che ha appena trovato una nuova presidente, Luisa Melara, dopo il licenziamento di Bagnacani, arrivato ai ferri corti con il M5S, ma non ha ancora bilanci approvati né del 2017 né del 2018; e ha un nuovo Cda, ma sulle cui modalità di nomina si scalda già la discussione.

POI C’È LA SOLUZIONE proposta dai Radicali Roma, anch’essa a lungo termine, con la campagna «Ripuliamo Roma» grazie alla quale sono state raccolte circa 6 mila firme, mille in più del necessario, a sostegno di una delibera di iniziativa popolare che la prossima settimana verrà consegnata in Campidoglio, con la scadenza dei sei mesi per essere discussa e votata in Consiglio comunale. Una proposta che sostanzialmente vuole stimolare il dibattito su un tema tabù: la costruzione sul territorio romano di nuovi impianti che permettano la chiusura del ciclo dei rifiuti e l’autonomia della Capitale. «Ama ogni anno spende tra i 120 e i 140 milioni di euro per utilizzare gli impianti di terzi, sia in regione che fuori regione – spiega il radicale Massimiliano Iervolino, consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti, che ha partecipato alla stesura della proposta – Perché quando è nata, Ama doveva solo essere addetta alla raccolta e allo spazzamento, lasciando il business ai privati. Roma non ha ancora elaborato il lutto della discarica di Malagrotta. L’Ama invece deve avere un nuovo Piano industriale per dotarsi di impianti sia per la raccolta differenziata che per l’indifferenziata, che è il vero problema di Roma».

Sono cinque le proposte radicali per un nuovo Piano industriale di Ama: aumentare la raccolta differenziata; costruire una piccola discarica residuale per smaltire gli scarti e la fos (frazione organica stabilizzata) prodotti dai Tmb; acquistare dal ras dei rifiuti romano, Manlio Cerroni, i due Tmb, Malagrotta 1 e 2, attualmente chiusi per manutenzione, che renderebbero l’azienda autonoma, visto che dopo l’incendio di via Salaria è rimasto solo il Tmb di Rocca Cencia, di proprietà dell’Ama; costruire impianti per il recupero e il riciclo dei materiali provenienti dalla raccolta differenziata; riconvertire i Tmb in «fabbriche di materiali riutilizzabili». In sostanza, «chi è addetto alla parte onerosa, l’Ama, deve avere anche impianti di proprietà e non lasciare la parte redditizia ad altri. Ricordiamo – conclude Iervolino – che il sindaco Marino affidò per 15 anni il servizio all’Ama di Daniele Fortini proprio affinché l’azienda potesse avere un credito bancario per comperare gli impianti».

UNA PROPOSTA CHE, nelle intenzioni dei Radicali, intende contrastare «la credenza popolare secondo la quale con la raccolta differenziata si risolve tutto», ma che comunque non osa pronunciare la parola inceneritore. Nessuna cittadinanza all’impianto tabù per eccellenza, neppure a quelli di ultima generazione, che alimentano le più grandi città d’Europa ad emissione zero.

Decisamente più radicale è invece la proposta che il 25 luglio, in un incontro pubblico tra le associazioni cittadine e Ama, avanzerà il presidente dell’Osservatorio sui rifiuti (nato per effetto della delibera del sindaco Marino) del I° Municipio, Jacopo Fedi: «Stop alla raccolta differenziata porta a porta». Tranquilli, non è un colpo di calore: Fedi, che è anche un professionista dell’ambiente e della sostenibilità, esprime un concetto tanto semplice quanto razionale.

«Partiamo dal fatto che tutti i dati sulla differenziata sono falsi. Quando si indicano certe percentuali si dimentica di dire che si sta calcolando la quantità di scarti raccolti, e non, come impone la Comunità europea, di quantità di materia effettivamente recuperata. A Roma non c’è alcun controllo, sia nel porta a porta che per i cassonetti, perciò anche la differenziata deve essere sottoposta ad ulteriore trattamento di smistamento per ottenere la qualità ottimale».

In ogni caso, va sottolineato il fatto che la raccolta porta a porta copre oggi il 33% delle utenze, come nel 2016, 2017 e 2018. Nel 2013 era al 12%, nel 2014 al 28%, nel 2015 al 29%. Incredibile, dunque, che quest’innalzamento di 4 punti percentuali nell’era Raggi abbia prosciugato tutto il personale che prima era addetto allo spazzamento manuale delle strade e dei marciapiedi.

Inoltre, spiega ancora Fedi, «la raccolta differenziata non si fa per gioco di società ma per abbattere le emissioni. Perciò bisogna fare un’operazione verità e dire che possiamo permetterci la raccolta differenziata in funzione della sostenibilità del sistema. Tutto questo via vai di furgoni e camion, tutto questo smistare e rismistare, che c’è a Roma, con il trasporto finali verso Maccarese, Udine, Padova, ecc, è un sistema troppo costoso e inquinante. Con un saldo ambientale negativo. Molto meglio smantellare tutto e prevedere isole ecologiche controllate h24. Il resto è propaganda».