Le ricerche sui rapporti tra cinema e pittura non sono nuove, né agli studi di cinema né alla storia dell’arte. Non si può dire che manchino i paradigmi per instaurare un discorso adeguato sul «paragone», come l’autore del volume chiama con termine antico il legame esistente tra il cinema e la pittura. Non difettano i film che fanno riferimento alla dimensione artistica, in particolare pittorica, della visione. Il binomio cinema-pittura non suonerà inusuale alle orecchie dello studioso e del lettore interessato al cinema. Fatta questa premessa, occorre dire che Effetto Sherlock, il volume dello storico e teorico dell’arte Victor Stoichita, è un saggio di largo respiro, come testimoniano i due sottotitoli: Occhi che osservano, occhi che spiano, occhi che indagano e Storia dello sguardo da Manet a Hitchcock (il Saggiatore, pp. 243, euro 20,00). Nell’edizione originale francese i due sottotitoli sono assenti: essi testimoniano però la portata e l’ampiezza dell’ipotesi qui formulata. «Storico e teorico dell’arte» è, per la verità, una definizione di comodo, che serve a tenere insieme la complessità della figura dello studioso e soprattutto della «scommessa epistemologica» che questi porta avanti con successo ormai da tempo. Stoichita affronta le questioni relative al mondo delle arti attraverso la semiotica: lo scopo del suo lavoro di ricerca consiste, per dirla in un modo un po’ rozzo, nell’individuare i codici e i dispositivi simbolici attraverso cui l’opera d’arte comunica al suo pubblico. Stoichita si distingue, oltre che per l’acume e la perspicuità delle sue analisi, anche per uno stile particolarmente amichevole nei confronti del lettore, il quale non si confronta con le asperità, a volte insormontabili, del gergo semiotico. Egli è al contrario accompagnato con eleganza a cogliere non solo le sottigliezze del discorso, ma anche (e soprattutto) il nucleo forte delle tesi di Stoichita.
Fine del vincolo mimetico
Fin qui abbiamo parlato della «teoria» dell’arte che l’autore pratica in questo libro, e di regola, ma poco o nulla sulla sua «storia». Il fatto è che Stoichita non frequenta una storia dell’arte fatta di mero accumulo di dati e di date. Essa è teoria e storia insieme: teoria, nella misura in cui formula ipotesi generali su come lavora il dispositivo simbolico dell’arte e di quali poteri e capacità essa è in possesso; storia, nella misura in cui cala queste ipotesi generali nel fenomeno artistico concreto per verificarne l’effettiva congruità con i dati empirici. Si vede bene allora perché il paragone tra pittura e cinema assume un senso particolare all’interno del lavoro di Stoichita. Esso non si limita a rilevare un insieme di «somiglianze di famiglia» per determinare la parentela più o meno stretta tra l’uno e l’altro medium. Tale lavoro individua nel passaggio di un particolare tratto, nella fattispecie di una peculiare forma dello sguardo, il luogo di una «rimediazione», tanto più importante in quanto riguarda, da un lato, l’inizio della decostruzione del vincolo mimetico in pittura (gli impressionisti, Manet, Degas) e, dall’altro, la nascita di un medium rivoluzionario come il cinema. Stoichita si rivela tra l’altro uno tra gli studiosi legati alla semiotica a dimostrare un atteggiamento più aperto e originale nei confronti della nozione di «rimediazione», nata ormai quasi venti anni fa nell’ambito dei media studies e coniata da Jay David Bolter e Richard Grusin.
L’ipotesi di Stoichita può essere così formulata: l’arte impressionista rompe con il dispositivo simbolico tipico della prima modernità, quello per intenderci in vigore dal Rinascimento almeno fino a Caravaggio. Si tratta della prospettiva: la «finestra albertiana» che assicura allo spettatore un accesso trasparente, una presa diretta, sulla realtà. Stoichita mostra come la pittura impressionista – in particolare l’opera di Manet, che rappresenta comunque un caso particolare all’interno di questo movimento artistico – non sia comprensibile se non si tiene conto dello sfondo opaco su cui si stagliano le figure. L’individuazione delle marche di opacità dell’immagine non è una novità nella teoria dell’arte: basti pensare ai magistrali studi condotti da Louis Marin sulla pittura barocca e sull’uso politico dell’arte da parte del Re Sole in Francia. L’elemento-cardine dell’analisi di Stoichita sui quadri di Manet – l’individuazione di figure di «spettatori interni», i quali orientano lo sguardo dello «spettatore esterno» – è parte già del bagaglio teorico di Marin. L’autentica specificità del discorso di Stoichita sta nel tipo di opacità che egli rinviene nell’opera innanzitutto di Manet, poi di Degas e degli altri impressionisti. L’opacità sta qui per la possibilità di sostituire il soggetto del quadro con uno sguardo interno rivolto su di esso, come ne La ferrovia; di determinare non una finestra sul mondo, come nella prospettiva albertiana, ma uno sguardo nel e attraverso il mondo. Generalizzando, la pittura non offre più allo spettatore una visione neutra, bensì uno scambio di sguardi (tutti incarnati) dal e nel quadro. Uno sguardo fatto di sguardi in macchina, campo e controcampo, fuori campo: uno sguardo cinematografico, di cui è possibile rendere ragione solo attraverso un montaggio, che avviene in parte sulla tela e in parte si prolunga nella rielaborazione dello spettatore.
L’intuizione critica di Zola
Giungiamo così alla parte finale del libro, dedicata al cinema e in particolare all’analisi di due celebri film: La finestra sul cortile di Hitchcock e Blow up di Antonioni. Di entrambi i film Stoichita mostra come si tratti di «film sul film», non nel senso corrivo di essere dei «metafilm» ma nel senso preciso di rafforzare la capacità che il cinema ha di riflettere sul suo medium senza perdere contatto con il mondo. Entrambi i film realizzano una condizione che, a parere di Stoichita, il Zola critico d’arte aveva già rilevato nella pittura di Manet e degli impressionisti: la capacità di sperimentare un realismo che non si propone più come «imitazione della natura», bensì come riorganizzazione dei media attraverso cui entriamo in contatto con la realtà. Il cinema realizza allora quella «rimediazione» che nella pittura moderna resta una condizione implicita, o che si realizza solo nel confronto con altri formati e nella fattispecie con la scrittura, tanto saggistica (la critica) quanto letteraria (il romanzo e il racconto): in entrambi i casi Zola è uno dei referenti principali.
A partire dai due film sopra citati, Stoichita sviluppa una tesi sull’esito di tale rimediazione cinematografica. È forse l’aspetto che resta più aperto dell’intero discorso e che non a caso l’autore affida a un ultimo breve capitolo, costruito come sequenza di dodici tesi. L’idea centrale, che dà il titolo al libro, è che lo sguardo cinematografico sia essenzialmente uno sguardo indagatore. Lo spettatore del cinema assume le vesti del detective: non del poliziotto al servizio del potere, ma del detective, il dilettante che segue le indagini obbedendo alla sola ragione. In questo aspetto Stoichita rileva un paradosso intrinseco al cinema, perché il lavoro sulle tracce, sulle ipotesi e sugli indizi, tipico del detective, e che nell’immagine si traduce nel montaggio di sguardi eterogenei, è per lo spettatore un lavoro tipico dell’immaginazione. Ma l’esito del film, nella misura in cui il racconto si accorda con la storia di un’indagine, segna l’avvento di una ragione che scioglie tutti i dubbi e i misteri. Ed elimina dunque l’immaginazione.