La notizia del Nobel per la pace l’aveva ricevuta in carcere, lo scorso ottobre. Ora, cinque mesi dopo, l’attivista bielorusso Ales Bialiatski ne riceve un’altra: condanna a dieci anni di prigione per «contrabbando di ingenti somme di denaro e finanziamento di attività di gruppi che hanno gravemente violato l’ordine pubblico».

A monte del premio e della condanna, la stessa motivazione: il lungo attivismo pro-democrazia di Bialiatski, il 60enne fondatore e anima dell’associazione per i diritti umani Viasna (Primavera), nata nel 1996 e impegnata nel sostegno ai prigionieri politici del regime di Lukashenko, stretto alleato di Putin e da molti descritto come l’ultimo dittatore europeo.

QUELL’ANNO, nel 1996, con un emendamento costituzionale – e con l’arresto di massa di chi protestava – Lukashenko aveva sancito il proprio potere a vita.

In prigione, l’ultima volta, Bialiatski era finito a luglio 2021, in un periodo particolare: l’anno precedente erano scoppiate proteste enormi contro Lukashenko e la sua contestata vittoria alle elezioni, durate un anno nonostante la brutale repressione. Un anno e mezzo dopo l’arresto è arrivato il Nobel, condiviso insieme alla storica associazione russa Memorial e quella ucraina Centro per le libertà civili.

AVEVA FATTO infuriare tutti quel premio, Mosca, Kiev e Minsk. Intanto il processo contro Bialiatski è proseguito. Non era solo, alla sbarra anche il vice presidente di Viasna, Valiantsin Stefanovich, e Uladzimir Labkovich, avvocato dell’associazione. Il primo è stato condannato ieri a nove anni, il secondo a sette.

Verdetto «crudele», ha detto la moglie di Bialiatski, Natalya Pinchuk. Di tortura parla Viasna raccontando le condizioni di prigionia: «Sono confinati da mesi in un edificio del XIX secolo, celle buie senza aria fresca, con poco cibo e quasi nessuna cura». Anche la Ue condanna: «Processi farsa», dice il capo degli affari esteri Josep Borrell.