Arriviamo a San Basilio de Palenque, in Colombia, quando il sole è ancora alto. Case basse, qualche lamiera a coordinarsi con la calce, molti murales che inneggiano alla storia del posto, la foresta che entra nel villaggio e viceversa. Il paese è in festa per il concerto che l’attende. Il palco è piazzato in mezzo alla piazzetta dominata dalla statua di Biohò, un guerriero cimarrón il cui profilo nel busto ricavato da una colata di ferro ricorda vagamente l’urlo di Munch.

Il percorso da Cartagena de Indias, dove si celebrano tutti gli altri appuntamenti del Festival Internacional de Musica, è un percorso fatto prima di periferia industriale, poi di lunghe piane coltivate e di un ponte che attraversa il rio Magdalena, infine di selva, anche se non troppo fitta. San Basilio è piena della sua gente, ma anche di militari, che sono arrivati in forze per garantire la sicurezza dei visitatori. In realtà ci si salvaguarda da eventuali incursioni della guerriglia che, anche da queste parti, ancora presidia la selva più profonda.

La gente del posto, tutti discendenti dei fieri cimarrones, non sembra affatto bellicosa e attende in surplace il concerto programmato per la sera. Un’esibizione anomala per i palchi di queste parti: il concerto di Geza & Los Virtuosos Bohemios, dunque una rilettura esuberante da parte dell’ensemble capitanato dal violinista Geza Hosszu-Legocky, del repertorio che attinge alla musica classica e alle tradizioni rom dell’Europa orientale e dell’Ungheria in particolare. Un bello switch off culturale e musicale, con qualche affinità riscontrabile nel dna identitario di due popoli come i cimarrones e i rom, allergici entrambi a ogni tipo d’irreggimentazione e per questo entrambi perseguitati, discriminati, vessati e oppressi. Gli schiavi africani furono introdotti nella Nuova Granada (oggi Colombia) con l’arrivo dei primi conquistatori e coloni europei. La schiavitù fu per la prima volta legalizzata dalla corona spagnola nel 1510 e la sua evoluzione da schiavitù domestica a schiavitù nelle piantagioni e nelle miniere variò lungo le due coste, pacifica e caraibica in accordo con l’evoluzione economica della Colombia nei secoli. Il principale porto di arrivo degli schiavi era quello di Cartagena de las Indias e gli africani provenivano da diversi gruppi etnici e linguistici dell’attuale Congo e Angola.

Durante il periodo coloniale le navi negriere che arrivavano nel porto di Cartagena de las Indias, trasportarono migliaia e migliaia di persone provenienti dall’Africa.

Rotti i legami con la propria terra, costretti alla mescolanza etnica dai padroni per evitare l’insorgere di legami solidali, gli schiavi seppero tuttavia ben presto organizzare fughe e sollevamenti. Se rivolte di schiavi e costituzione di «territori ribelli» furono un fenomeno che caratterizzò tutto il continente americano, per quanto riguarda la specificità colombiana gli schiavi rivoltosi presero il nome di cimarrones e i loro insediamenti furono chiamati palenques. Il termine cimarrón (aggettivo e sostantivo) indicava in origine gli animali, come il maiale o il cane, che da domestici ridiventano selvatici; lo stesso termine viene usato la prima volta nella Real Cédula dell’11 marzo 1531 per definire gli schiavi indios ribelli in fuga dalle piantagioni delle colonie spagnole d’America. I palenques furono dunque costituiti da schiavi che fuggivano dalle Reales Minas, dai servizi domestici o direttamente dalla navi negriere, fondando villaggi circondati da piccole fortezze per difendersi dagli attacchi dei soldati bianchi. Cimarronismo era invece il nome dato all’atto di ribellione, e cimarrón era il nero che fuggiva per andare a fare parte di un palenque nella selva. Questo tipo di resistenza nera cominciò a metà del 1500, insieme alla schiavitù, e si produsse fino alla fine della colonia.

Il primo obiettivo delle rivolte fu la ricerca e la riconquista di Luogo e di un senso del Luogo, per ricostruire sulle montagne e nelle profondità delle foreste territori liberi in cui riorganizzare un proprio modello di vita e cultura nel mezzo del regime coloniale spagnolo.

I palenques furono infatti la realizzazione di un progetto di libertà. A partire da questi i cimarrones si organizzarono per ricreare nuove forme di vita, nuovi tipi linguistici, risultati dalla mescolanza tribale. Si trattava di vere e proprie repubbliche indipendenti che possedevano propria autorità e organizzazione e che lavoravano per la conservazione e la ricreazione di lingua, religione, musica, balli.

La memoria collettiva di molte comunità afrocolombiane oggigiorno rinvia la propria fondazione al cimarronismo, e la riflessione sulla propria identità etnica affonda le sue radici nell’esperienza collettiva delle schiavitù, delle rivolte, della fondazione di propri territori. Come ha segnalato Jaime Arocha, intellettuale del movimento nero, la storia del cimarronismo è la pietra angolare della storia afrocolombiana tracciata dal movimento nero, perché permette di ricondursi a una tradizione di lotta.

 

Un pueblo unito

Il turista che passeggia per il centro di Cartagena conosce bene le palenqueras, queste donne nere dagli abiti sgargianti che sembrano usciti più che da una sartoria, da un mariposario. Vendono frutta ai turisti accaldati e si lasciano fotografare davanti alle loro macedonie tropicali in posa, come figuranti consumate. Quello che i turisti ignorano spesso è il pueblo dal quale provengono – San Basilio de Palenque – un’enclave d’Africa in terra di Colombia, un luogo per certi aspetti magico, in cui si parla un idioma unico che mescola lingue romanze come il portoghese e il castigliano a lingue bantù come il kikongo e il kimbundu.

San Basilio de Palenque è un pueblo che andrebbe studiato a fondo, con approccio quasi scientifico, perché c’è qualcosa di prodigioso, forse un microclima, che favorisce un’identità speciale e il proliferare delle vocazioni artistiche. Sennò come spiegare che in un villaggio di appena 421 case e 3500 abitanti sia nato il più grande pugile colombiano del ventesimo secolo, Antonio Cervantes, alias Kid Pambelé, una leggenda delle percussioni e della musica afrocolombiana come Paulino Salgado, alias Batata, una cantante di fama mondiale come Petrona Martinez, due volte candidata al Grammy Award e indiscussa regina del bullerengue e persino il coprotagonista di Queimada, l’attore Evaristo Marquez, un mungitore di vacche che dalla sera alla mattina si ritrovò a recitare al fianco di Marlon Brando… tutti discendenti dei cimarrones… Non a caso questo piccolo villaggio è stato dichiarato dall’Unesco opera maestra del patrimonio orale e immateriale dell’umanità, essendo l’unico palenque che ancora sopravvive a quattro secoli dalla sua fondazione da parte degli schiavi africani che si ribellarono contro gli spagnoli. Oggi, per fortuna, dopo secoli in cui l’idioma era stato discriminato anche la lingua palenquera è tornata egemone nelle scuole e i ragazzi la studiano insieme alle imprese del percussionista Batata e del pugile Pambelé.

La prima impressione che il viaggiatore ha – entrando a Palenque – è di trovarsi nel solito pueblo colombiano. Strade polverose e sconnesse, rete fognaria inesistente, vecchie case di fango e sterco coi tetti di palma o di lamiera, pochissimi negozi in cui quasi tutto si esaurisce nelle prime ore del mattino, maiali, maialini e palme di mango ovunque. L’elettricità che stantuffa a fatica e che arrivò negli anni Settanta grazie ai pugni di Pambelé, di cui l’allora presidente Misael Eduardo Pastrana Borrero era un tifoso incallito.

I cimarrones erano, come si diceva, schiavi in fuga, mossi da un rifiuto istintivo della prigionia e della coercizione. I neri africani arrivarono a Cartagena, poco dopo la fondazione della città che poi avrebbe rappresentato per secoli il principale centro portuale per la tratta, ovvero per il traffico di schiavi africani, nel Caribe spagnolo e in tutto il Sudamerica. Nelle piazze della città vennero negoziati e messi all’asta centinaia di migliaia di «pezzi», gran parte dei quali venivano poi smistati in altre terre, città, porti.

Negli anni della tratta si registrarono episodi di schiavi in fuga un po’ in tutte le Americhe, ma specialmente in Centroamerica e nel nord del Sudamerica, zone in cui la bassa densità di popolazione rurale e la presenza di grandi appezzamenti di selva e di giungla favorirono l’occultamento e l’imboscarsi dei fuggiaschi. Nelle fitte zone interne della regione di Cartagena de Indias si costituirono comunità di cimarrones – «los palenques» – che rifiutavano ogni contatto con gli spagnoli e che pure non avevano al loro interno nessuna identità di lingua e di etnia, a causa della loro variegata provenienza dal suolo africano. Il loro isolamento a quel punto, era senza dubbio ambivalente: esterno e interno, almeno nelle prime fasi della loro coesistenza come comunità. Cercavano d’altra parte di conquistare porzioni di libertà attraverso l’interscambio e provarono a stare allo stesso tempo dentro e fuori della società coloniale. I cimarrones non volevano distruggere il potere ispanico, né chiedevano l’abolizione della schiavitù. La loro aspirazione era quella di scaricare i loro padroni, legalizzare la loro fuga e governarsi da soli, attraverso rappresentanti individuati all’interno della loro comunità. Fu proprio questa la base dell’accordo del 1716 tra il neo consacrato vescovo di Cartagena Antonio Marìa Casiani e il capitano Nicolàs de Santa Rosa, nero creolo di un bellicoso palenque negli aspri territori dei Montes de Marìa, a un’ora e mezzo di viaggio dal passo della diga del Dique de la Barranca. Il vescovo stipulò un patto pieno di aperture. Cartagena, che stava attraversando un periodo di grande depressione dopo il saccheggio francese del 1697 e la guerra di successione spagnola, non aveva la possibilità di sottomettere e controllare i cimarrones. In cambio della pace e «tierras suficientes para labrar», questi ultimi accettavano l’autorità della corona spagnola e della chiesa cattolica. Si misero in fondo alla lista di coloro che avevano diritti tra i sudditi della corona, in cambio nessun bianco, eccetto un curato che si sarebbe occupato della formazione spirituale, avrebbe potuto essere incaricato di governare (e comandare) nel loro territorio. Scambiarono la sottomissione all’autorità coloniale con una libertà formale, la normalizzazione dei loro commerci con Cartagena e il diritto a conservare le proprie tradizioni. E siccome il vescovo e teologo Casiani professava il suo ministero nell’ordine di San Basilio el Grande, la nuova parrocchia venne chiamata San Basilio de Palenque. Ratificare l’accordo di San Basilio innescò una serie di conflitti, tensioni e rabbiose recriminazioni. Per i proprietari e i commercianti di schiavi di Cartagena, l’esistenza dei cimarrones era intollerabile. Minacciavano la città, istigavano alle fughe e offrivano rifugio a «todas la naciones de Guinea» (una definizione sbrigativa della loro matrice etnica). In più, costituivano un pericolo per i sentieri che univano il Rio Magdalena e i territori del Nuevo Regno più all’interno. Fioccarono spedizioni punitive commissionate dai loro vicini di Cartagena e intenzionate a ridurre di nuovo in schiavitù la comunità di cimarrones.

Provare a liquidare i villaggi cimarrones non fu però una cosa semplice. All’inizio del diciassettesimo secolo prosperò il palenque di Matuna, nel delta del Dique, un villaggio comandato da Domingo Biohò, che si faceva chiamare «Re dell’Arcabuco». Impossibile da sottomettere, lottò per far accettare la sua presenza e accreditarsi, insieme ai suoi guardaspalle, nella stessa Cartagena. Ci vollero vent’anni perché un eccesso di confidenza da parte del «rey» permettesse di catturarlo e processarlo. Le varie strade che portavano a Cartagena dall’interno della regione tracciarono, nel corso di quei decenni, un semicerchio di sangue e incendi, interrotto solo dallo spicchio azzurro di mare caraibico che bagna la città. Truppe regolari e milizie dispiegarono le loro forze tra i villaggi fino al rio Magdalena. Distrussero gli insediamenti cimarrones, restituirono parte degli schiavi fuggitivi ai loro padroni, castigarono esemplarmente i loro capi. Le razzie punitive si celebravano in nome del principio di proprietà, eppure appena le truppe e le milizie di ritiravano, i palenques si riformavano. C’era un continuo ricambio di aspiranti reclute e di associati di questa «utopia pirata» per un motivo molto semplice: perché esisteva la schiavitù. Era il sistema schiavista che invitava alla fuga, ad ogni costo. E forniva nuovo ardore ai cimarrones.

 

«Obbedisco». Ma anche no

Il periodo di pace più lungo coincise con l’espulsione dei portoghesi da Cartagena dopo il 1640, un periodo che al contempo vide un relativo calo della tratta. Nel 1680, il parroco di Turbaco, don Balthazar de la Fuente, iniziò il suo ministero nomade e transumante che lo portò fino ai territori in cui si rifugiavano i cimarrones. Ereditava la missione di due riferimenti spirituali importanti per la regione di Cartagena, padre Sandoval e san Pedro Claver. Spostandosi nella regione dell’Arcabuco conobbe Domingo Criollo, che si definiva «gobernador de los palenque de los Monte Marìa» e che in effetti comandava una truppa di seicento uomini indomabili, contro i quali poco avevano potuto le armate coloniali. Con il passare degli anni Domingo propose un patto simile a quello che si era celebrato a San Basilio de Palenque e padre Balthazar scrisse al re un esemplare memoriale che caldeggiava una soluzione pacifica dei conflitti con i palenques.

Contro ogni aspettativa, il re accettò le argomentazioni. Per cedula del 23 agosto 1691, ordinò la riduzione dei palenques all’obbedienza della corona in cambio della libertà dei palenqueros. Gli schiavisti di Cartagena non la mandarono giù neppure questa volta e misero in atto il rituale «obbedisco ma non metto in opera» e armarono tra il 1693 e il 1695 la più violenta repressione di tutta la storia della colonia per estirpare finalmente «la radice di un seme così pericoloso». Domingo Criollo morì negli scontri, la provincia tornò ad essere «bonificata» e però, come sempre, i cimarrones tornarono, e tornarono a costituirsi in comunità. Grazie alla loro tenacia si fortificò e un paio di decenni più tardi venne ufficialmente riconosciuto San Basilio de Palenque, il primo villaggio libero delle Americhe.

San Basilio de Palenque è stato dunque il primo pueblo libero d’America grazie a un decreto reale del re di Spagna emesso nel 1716 e al carisma di guerrrieri come Nicolas de Santa Rosa, Domingo Criollo e Benkos Biohò, un principe della Guinea Bissau, un altro che diede parecchio filo da torcere agli spagnoli, guidando altri schiavi ribelli a riappropriarsi della loro libertà. Con una storia così, il palenquero non poteva che essere «condannato» a differenziarsi da tutti gli altri afrocolombiani. Anche il nero della sua pelle è un’altra storia. I neri colombiani hanno la pelle color cioccolata. Il palenquero è nero come l’antracite. Sposa la donna che è stata sua compagna di giochi fin dalla prima infanzia, è fiero delle sue radici e quando muore qualcuno della comunità lo veglia nove notti, tra lacrime, balli, canti e banchetti. È anche molto attento a come sistema i capelli e naturalmente non si tratta solo di un vezzo: a San Basilio sono stati catalogati più di 60 tipi di pettinature tradizionali che ricreano paesaggi circostanti o attrezzi da portare in caso di fuga, stato del terreno ed eventi significativi (la testimonianza di questa «attenzione» è certificata anche da molti murales che da queste parti sostituiscono i neon pubblicitari)… C’è poi la musica che ha una connotazione afro così spiccata che è stata definita afro-colombiana e ha intriso di sé tutte le strutture ritmiche più ataviche delle varie tradizioni etniche del nord est atlantico. Cosicchè – in una sorta di continua replica del processo creativo e di simulazione delle tattiche dei primi cimarrones che rielaboravano le musiche ascoltate dì nascosto nelle case degli ex-padroni, dando origine a generi minori – anche le musiche «tribali» dei palenque sono diventate il canovaccio di mille altri generi che hanno poi fruttato anche contaminazioni con il pop, con il funk, con altre musiche latine (esemplare, da questo punto di vista, la tracklist della compilation uscita nel 2010 per la Vampisoul: The Afrosound of Colombia Volume 1).

Mano a mano che arriva la notte, San Basilio si accende. La musica di Geza si mescola con mille altri suoni e rumori. Non c’è nulla della tradizionale compostezza di un concerto di musica classica. Sembra più una fiera di paese con un soundtrack sbalestrato. Corde boeme sovrapposte al triturarsi del ghiaccio nelle macchine artigianali per il gelato, tempi dispari di matrice balcanica affiancati dai poliritmi che arrivano dalle suonerie dei cellulari, applausi degli astanti rivolti ai musicisti e grida dei bimbi e degli ubriachi rivolti a tutti e a nessuno… un bailamme insomma, divertente e spettacolare. La selva assiste attonita a tutto questo, così come assisteva secoli addietro alle fughe e alle lotte dei cimarrones.