Cresciuto in un paese «accerchiato», com’era la Svezia, ma al riparo dall’espansione nazista, Stig Dagerman – prima ancora di diventare un anarco-sindacalista e un socialista libertario – è stato un atipico scrittore di guerra: aveva ventiquattro anni quando nel 1947 uscì Autunno Tedesco, una raccolta di cronache dalla Germania ridotta in macerie realizzate per l’Expressen. In piedi fra i relitti, lì dove «ogni luogo è il peggiore», fra una umanità dimenticata, di profughi e sfollati tedeschi, Dagerman fu tra i primi a dare loro voce, raccontando di quell’esercito di affamati. Dirà che la condanna unanime abbattutasi poi su di loro è il mezzo che il mondo occidentale post-bellico, «denazificato» sfrutta per scaricarsi la coscienza.

Aveva già dato prova di radicalità, e peraltro anche di una impressionante abilità tecnica, due anni prima, quando con Il serpente, suo romanzo di esordio (oggi pubblicato da Iperborea con la traduzione e la postfazione di Fulvio Ferrari, pp. 320, € 18,00) si era rapidamente imposto nel panorama letterario svedese.

Dagerman è uno scrittore che abita i conflitti e i paradossi: nel Serpente racconta la guerra che non c’è, mentre un’angoscia intollerabile incombe. Ambientato in una caserma, – elemento interessante anch’esso – il romanzo ritrae un eterogeneo gruppo di soldati mobilitati durante la seconda guerra. La Svezia era rimasta neutrale, eppure nel paese si respirava un’aria mortifera, la stessa che si avvertiva ad Amburgo, a Berlino, a Hannover. Durante una disordinata esercitazione nei boschi della provincia svedese, un soldato osserva con indolenza i suoi commilitoni scambiarsi fucilate a salve. All’improvviso, da un ramo, cala il corpo flessuoso di un serpente. La visione è rapida, ma basta a scuotere il giovane, che quasi di istinto intrappola la bestia in uno zaino.

Moltiplicazioni metaforiche
Una volta nascosto, il serpente esce di scena, ma ricomparirà in occasioni precise, poche ma capaci di turbare il clima intero del romanzo, del quale percorre l’intero sviluppo, come una scarica elettrica. Lo scapestrato soldato porta l’animale con sé durante una fuga verso le campagne, dove ad attenderlo c’è Irène, la sua spasimante, che si è data alla macchia anche lei in modo rocambolesco. Il loro incontro, nel caos dei bagordi notturni, è illuminato a sprazzi dalla prosa tumultuosa e sferzante di Dagerman: «La paura frulla dentro di lei con il suo piccolo frullino dentato, lei è nuda di fronte al terrore e sa che è vero. Sa che è sempre stato vero e che tutto quel che ha fatto, tutto quel che ha detto era solo per sottrarsi al terrore. E il terrore è l’animaletto che ormai niente può fermare». Allude come prevedibile, al serpente, ma l’«animaletto» è anche l’immagine con cui la ragazza descrive una paura latente, è il vezzeggiativo di qualcosa di innominabile.

Affidato a moltiplicazioni metaforiche, che disperdono il senso nel movimento della scrittura, lo stile allusivo del romanzo risente della predilezione di Dagerman per William Faulkner. A soli ventidue anni l’autore svedese dispone di una tecnica sbalorditiva, espressa in periodi avvolgenti, che approdano a una coda di immagini e poi a un’altra, affastellate ogni volta le une sulle altre fino quasi a disfarsi, e quando il lettore teme che il nesso sia perduto, il serpente arriva a chiudere il cerchio.

Anche l’architettura del romanzo è coinvolta in questo moto circolare, e diversi suoi elementi diventano comprensibili solo in quanto ricorsivi. Nella seconda parte, nuovi personaggi si ritrovano riuniti nella pigra caserma di Stoccolma per una sorta di convivio fra insonni: discutono di un qualche evento spaventoso, ed è questo a tenerli svegli. Il serpente torna ad affacciarsi. Scambiandosi aneddoti, gli uomini si intrattengono, e quando poi racconteranno a turno le proprie vicende, misteriosamente intrecciate, sarà difficile a chi legge riconoscere, di volta in volta, il narratore. Chi osserva è discosto dalla scena, non si rivela, e lo sguardo narrante è troppo vicino, il soggetto ne risulta sfocato, o visto in tralice, o proiettato in un’ombra. L’occhio sbircia, l’orecchio origlia, la prospettiva è mobile: «Tutti i rumori sono ben svegli e gridano a mezza voce. I cavalli sono nella scuderia, nella fucina risuona l’incudine e la lama di una sega morde selvaggiamente il giorno alla gola. Fucili se ne stanno allineati a masticare la polvere. E il giorno procede, il giallo giorno di rame si fa piano piano di alluminio».

Esemplificativo di quella particolare sintesi fra il piano politico della scrittura, che avrebbe segnato la produzione giornalistica e saggistica di Dagerman, qui concentrata sull’ottusità dell’ambiente militare svedese, e lo sperimentalismo modernista, Il serpente è attraversato da una logica degli eventi poco deducibile, e tutta intrinseca alla sua tessitura linguistica; ma lo percorre una ratio subliminale, quella del serpente, la logica della paura, che è il cardine del libro. Di sé Dagerman ha detto di considerarsi un «analista dell’angoscia»: bisogna «procedere analiticamente per esclusione – ha scritto nella Politica dell’impossibile – e pervenire così a una soluzione che permetta al meccanismo sociale di funzionare senza le forze motrici dell’angoscia e della paura». Insopprimibile condizione esistenziale di chi adotta una visione del mondo che non contempla la religione ed è invece spalancata sul non-senso, al tempo stesso l’angoscia è l’ospite incomodo dei sistemi democratici, il grande rimosso che lungi dall’essere appannaggio esclusivo dei totalitarismi, traversa ogni potere statale. Se in Autunno Tedesco la paura, rimossa dall’ideologia post-bellica, riaffiora fra le macerie, nel Serpente si insinua in maniera più capillare. È il timore dell’inautenticità, di non riuscire a parlare «al cuore delle cose del mondo», quel sentimento che Dagerman avrebbe vissuto fino a sentirsene, negli ultimi anni della sua vita, quasi paralizzato, comunque investito da una crisi senza rimedio. E fra le «false consolazioni» possibili, a trentun anni scelse la morte.

Come un sottomarino
Nel Serpente, la necessità di saldare insieme scrittura e vita si sposta dal piano della cronaca a quello della lingua, esprimendosi in maniera a tratti forse criptica, ma sempre potente. Se il Dagerman giornalista non è edificante, il romanziere è abissale. Quando la critica stalinista lo accusò di risultare astruso, lo scrittore rivendicò il «pericolo dell’essere sottomarini», una sincerità foriera di fraintendimenti, immune dalla coazione alla chiarezza. Citò la psicoanalisi e la pubblicazione dell’Ulisse di Joyce come i due fatti più rilevanti per la letteratura XX secolo. E per parte sua rifiutò di sottomettersi alla ratifica dell’esistente sia sul piano politico che su quello letterario, sposando l’imprevedibilità come condizione con la quale ogni scrittore dovrebbe misurarsi. A volte – spiegò – «può davvero sembrargli che questo qualcosa stenda la sua ombra su di lui. Forse addirittura che la stanza intorno a lui svanisca. In questo momento le proporzioni di questo qualcosa si fanno paradossali».