Flusso ininterrotto del testimone di un presente traumatico, Situ è l’elegia terminale di un io autoriflessivo, che Steven Seidenberg pubblicò nel 2018 e ora Pietro Traversa traduce per Arcipelago Itaca (pp.197, € 17,00). Riflettendo ossessivamente su se stesso, nel suo montaggio di aforismi il cogito registra a malapena le sollecitazioni sensoriali che lo investono. Dai diversi gradi di calore del sole, alla prossimità di un porto che invita a una partenza mai compiuta, nulla pare arrestare questo ruminare del poeta che, come un bovino ingombrante, mette il proprio io al centro di linee cartesiane indirizzate verso una logica dialettica senza appigli nella realtà esterna, e votata a una entropia senza appello.

Questo flusso verbale e senza volto, fa di Situ, com’è tipico della L=A=N=G=U=A=G=E Poetry statunitense, un’opera insieme poetica e filosofica, che forza i limiti del genere letterario, reclamando una cerebrale potenza senza atto.

Mentre il lettore viene preso da un oppressivo senso d’inerzia, il poeta gli offre la parabola allegorica della nostra attuale inadeguatezza dinanzi alle sfide del disastro ambientale e delle grandi migrazioni, che richiederebbero una operatività immediata, cui il cogito oppone un ordine speculativo prigioniero della sua beckettiana impasse. La materia lirico-filosofica di cui si sostanzia l’elegia di Seidenberg fa del poeta un teorico di se stesso, un po’ come nella prosa poetica di Lyn Hejinian che, da superba interprete della soggettività postmoderna, nel parlare di sé definisce le condizioni linguistiche del suo discorso entro regole sempre meno aderenti a quelle di un panorama surreale e mineralizzato. Allo stesso modo, in Situ, il luogo in cui il logos elabora imperterrito le condizioni del suo esistere è una panca, che in inglese significa anche lo scranno del giudice.

Nel bel volume fotografico di prossima pubblicazione, The Architecture of Silence: Abandoned Lives of the Italian South (Contrasto), Seidenberg lascia parlare solo le immagini di uno spazio che lo trascende. Insieme alla antropologa Carolyn L. White, fotografa la moderna archeologia di cascine fatiscenti in cui a soppiantare il logos e la sua sostanziale irresolutezza provvedono i ruderi delle campagne di Altamura e di Irsina, sopravvissuti all’economia rurale del dopoguerra e al fallimento della riforma fondiaria. Tra la Puglia e il materano, lo sguardo fa tacere il rovello della coscienza per illuminare una vastità di spazi silenziosamente abitati da migranti e lavoratori stagionali che lasciano dietro di sé le tracce geroglifiche della loro logica inespressa e dei loro misteriosi alfabeti.