Presentando Steve Albini nel corso del suo documentario Sonic Highways, Dave Grohl, leader dei Foo Fighters ed ex batterista dei Nirvana, lo descrisse come uno che «ha la reputazione di un cinico un po’ stronzo». La scorsa estate Albini dal palco del Primavera Festival di Barcellona, dove era ormai una delle presenze costanti con i suoi Shellac, disse al pubblico: «Vorrei solo farvi sapere che sono così felice che sotto questa chitarra ho un’erezione dura come una roccia. Sarebbe bello se voi vi metteste tutti a fare all’amore». La maschera del produttore indipendente, distaccato, scorbutico e scostante, in scena crollava per rivelare la vera natura di un artista che amava la musica e amava giocarci, plasmarla, distruggerla e distorcerla per farla rinascere. Sempre secondo le sue regole. Albini è morto lo scorso 7 maggio a Chicago colpito da un improvviso attacco cardiaco. Aveva 61 anni. Dave Grohl, come tanti che ci avevano lavorato insieme, dava comunque un giudizio che andava oltre la reputazione: «È uno dei più grandi e migliori produttori e ingegneri del suono al mondo». L’importanza di Albini era, e sarà sempre, superiore alla sua fama. Di origini piemontesi, nato in California, ma cresciuto, per esigenze lavorative paterne, nel Montana, da ragazzo scopre il punk grazie ai dischi dei Ramones e decide, finita la high school, di andare a studiare giornalismo alla Northwestern University in Illinois con l’ambizione di entrare in contatto con il mondo musicale di Chicago. La sua carriera giornalistica si limiterà ad alcuni articoli su fanzine e ad alcuni caustici editoriali sulla scena rock. La sua vocazione è lavorare nella musica e con la musica.

IL DEBUTTO
Il suo debutto discografico è datato 1982. Incide, in quasi perfetta solitudine, e grazie a un baratto di una cassa di birre, un ep con il nome Big Black. Un prodotto inevitabilmente acerbo, ma in cui la sua idea di rock poco ortodosso, viscerale, scandito da sussulti sincopati e vicino a certo corrosivo post punk britannico (Pop Group, Killing Joke…) già fissa gli assi cartesiani di un’intera carriera. I Big Black da progetto solista diventano poi un trio grazie all’innesto di due musicisti provenienti dai Naked Raygun. La band è destinata all’inconsistenza commerciale, ma la scena americana sotterranea è in fermento e il loro sound fragoroso e ossessivo e le loro provocazioni rivaleggiano con gli eccessi sonori di artisti quali Black Flag, Hüsker Dü o Sonic Youth. Con un’identità musicale ormai sempre più definita, Albini si avvicina alla produzione musicale. Nel 1988 conclusa l’esperienza con i Big Black (con cui aveva preso di mira anche Mussolini nel singolo Il Duce), si mette al lavoro con una esordiente band di Boston, i Pixies. Produce il classico Surfer Rosa. È un capolavoro del rock alternativo, non solo per l’originalissimo approccio alla canzone del gruppo di Black Francis e Kim Deal, ma anche per una produzione che riesce a rendere i suoni così vividi da risultare quasi visibili. E sarà proprio un film, Fight Club di David Fincher, ad associare Where Is My Mind?, un brano di quella raccolta, a uno dei momenti più memorabili del cinema di fine secolo.
Albini prosegue la sua carriera da musicista, sempre senza compromessi, prima nei Rapeman e poi fondando gli Shellac. Ma è sempre più richiesto come produttore anche se lui ostina a farsi definire «recording engineer», tecnico del suono. Le sue collaborazioni di quegli anni ne confermano l’indole irrequieta. Firma dischi di rumoristi giapponesi (Zeni Geva) come di collettivi industrial rock (Pigface), passa dal blues punk dei Boss Hog all’indie delle Breeders e inizia anche a piantare i semi del grunge con i Tad, pionieri della scena di Seattle. Diventa il padrino delle produzioni underground e, soprattutto, il suo nome nelle note di copertina vale come una certificazione di credibilità artistica e di rifiuto di compromessi commerciali. Ma se lui sceglie di non avvicinarsi al mainstream è il mainstream che si avvicina a lui. Nel 1991 è esploso il fenomeno Nevermind. Quello che era rock alternativo ora domina le classifiche. Una notte riceve una telefonata da una voce che non riesce a identificare. Chi parla è chiaramente alterato, ma si mette a divagare di musica e di un possibile nuovo album. La voce è quella di Kurt Cobain dei Nirvana e Albini diventa il produttore del seguito di Nevermind. Per concentrarsi sul lavoro, e soprattutto per tenere Cobain lontano dalle droghe, Steve decide di isolare la band in uno studio in Minnesota. L’esito è In Utero. È il disco che voleva Kurt: una raccolta di canzoni che mantenesse intatta l’identità e la credibilità dei Nirvana e che suonasse aggressiva e al contempo pura. Non è un sequel, non è un tentativo di rimanere in testa alle classifiche, avrebbe dovuto essere un nuovo inizio. Purtroppo diventa un testamento.

L’ETICA
L’attività di Steve è sempre più intensa. Fonda a Chicago gli Electrical Audio Studios che diventano il suo regno, tempio della sua vocazione e della sua filosofia. Nel 1995 inizia la collaborazione con la band catanese degli Uzeda, con cui inciderà quattro album, l’ultimo dei quali registrato nel 2019. Firma anche quello che è forse l’ultimo grande successo dell’era d’oro del grunge, Razorblade Suitcase degli inglesi Bush nel 1996 e nel ’98 incide e mixa negli studi di Abbey Road la reunion di due giganti del rock, Jimmy Page e Robert Plant, tornati insieme per l’album Walking into Clarksdale.
Lavorerà su centinaia di album e, tra gli altri, con Jesus Lizard, Jawbreaker, Stooges, Sunn O))), Dirty Three, Low, Jarvis Cocker, Jon Spencer Blues Explosion, Mogwai. Per tutta la vita ha deciso, contrariamente a ogni prassi e logica finanziaria, di farsi pagare a ore e non con i diritti d’autore, rinunciando a rendite potenzialmente enormi. Spiegherà così la sua scelta: «È eticamente inaccettabile dire a una band, ‘Lavorerò per un paio di settimane e dovrete poi pagarmi per il resto della vostra vita’. Non è così che lavorano gli idraulici e i muratori. Non è così che lavoro io». Questa decisione gli ha creato non pochi problemi con i creditori, ma Steve è riuscito a compensare questi potenziali mancati guadagni con la sua passione parallela, il gioco del poker, che in alcuni casi lo ha portato a vincere montepremi a cinque zeri. Qualcuno non lo ha mai amato. Parlando di una delle sue produzioni più celebri, quella di Rid of Me di PJ Harvey, Elvis Costello ha detto: «Per me, il disco suona di merda. Non sa niente di produzione». Albini è uno di quegli artisti che non si è mai vergognato di definirsi un artigiano. Non ha mai avuto paura di essere provocatorio con il rischio di farsi fraintendere, come è avvenuto proprio con il singolo dei Big Black Il Duce. Né è mai stato timido nel criticare artisti che non gli piacevano o che avevano fatto scelte di carriera che non approvava. Gli Smashing Pumpkins per lui erano «insignificanti». I Sonic Youth avevano «abbandonato la loro identità per diventare una band mainstream di scarso successo». E sugli Steely Dan: «Sarò sempre quel punk rocker che caga su band come queste». In queste settimane era prevista l’uscita del sesto album degli Shellac, To All Trains. Un ritorno discografico atteso da dieci anni a cui avrebbe fatto seguito un tour. La morte lo ha colto nei suoi studi, dove stava facendo quello che più amava. «Come vorresti che venisse ricordato il tuo lavoro?» gli venne chiesto qualche anno fa. Rispose: «Non me ne frega niente. Lo sto facendo, e questo è ciò che conta per me: il fatto di poter continuare a farlo». Purtroppo non continuerà. Ma quello che ha fatto è destinato a rimanere.