Quando Mark Twain cominciò a «mettere su carta» la sua vita, attorno al 1870, si cominciò a misurare con un compito «impossibile». Ad irritarlo era soprattutto l’ordine cronologico richiesto dalla narrazione autobiografica tradizionale, che imponendo allo scrittore di raccontare la propria storia dalla «culla» alla «tomba», senza «escursioni laterali», finiva per condurre a un resoconto troppo «letterario» e lontano dal vero. Solo nel 1904, dopo anni di tentativi fallimentari, Twain escogitò il «metodo giusto» per lasciarsi alle spalle gli artifici della letteratura. Si mise allora a dettare l’autobiografia a un’esperta stenografa per un paio d’ore al giorno, animato dal principio di un’assoluta libertà, vagando «a piacimento» attraverso gli eventi e i ricordi allo scopo di salvaguardare «l’interesse» del racconto.
Fino ad ora non è stato facile rendersi conto della portata di un simile metodo, tanto innovativo ed efficace da costituire, secondo Twain, un modello «per tutte le autobiografie future». Le traduzioni italiane dell’Autobiografia di Twain seguivano infatti il testo assemblato nel 1959 da Charles Neider, che a forza di tagli aveva rimaneggiato i materiali autobiografici fino a riordinarli lungo un ipotetico asse cronologico. Basandosi sull’edizione apprestata nel 2010 da Harriet Elinor Smith nell’ambito del «Mark Twain Project», la nuova traduzione dell’Autobiografia di Mark Twain (a cura di Salvatore Proietti, Donzelli, pp. XXXIX-469,  euro 35,00) si impegna invece a ripristinare il testo integrale delle diverse sessioni di dettatura. In questo modo, per la prima volta, viene messo a nostra disposizione il «progetto» di un autobiografo disposto a parlare non contro, ma a favore della menzogna, nella piena consapevolezza che «nessun uomo può dire la verità su di sé».
Per accorgersene basta lasciarsi catturare anche soltanto dalla verve delle prime dettature, capaci di trascinarci a contatto con gli argomenti più disparati. Twain non si preoccupa dell’ampiezza delle digressioni, né della frequenza dei commenti, perché è convinto che l’elemento decisivo del suo discorso non risieda nelle «azioni» del passato, bensì nel pensiero «del momento», da risvegliare con qualsiasi mezzo. Anche per questo l’autobiografia si delinea fin dall’inizio come una combinazione di «storia» e «diario» del presente, che non esita a scatenare la «tempesta» dei ricordi a partire da ritagli di giornale, brani di corrispondenza e discorsi tenuti dallo scrittore durante la sua trascorsa attività di conferenziere. Persino la biografia che una delle figlie di Twain, la piccola Susy, scrisse sul padre in tenera età viene utilizzata come contrappunto per alimentare le osservazioni e gli andirivieni di un testo onnivoro, privo di inizio e di fine, dove assieme alla successione dei fatti viene destituita di importanza ogni gerarchia tra eventi «grandi» e «piccoli».
Procedendo con le sedute, a tratti si ha l’impressione che Twain stia costruendo un edificio narrativo molto simile alle case in cui racconta di aver vissuto. Con la sua «enorme confusione di camere, sale, corridoi, celle e spazi sprecati», la Villa di Quarto a Firenze, descritta nei dettagli come sede delle prime dettature, potrebbe rappresentare l’emblema del libro. Anche i capitoli dell’Autobiografia di Twain, come le stanze della Villa, assomigliano a un «insensato groviglio» di epoche e di ambienti pronti a immettersi l’uno nell’altro: l’unica planimetria che permetta ai lettori di non smarrirsi, in questa teoria di spazi senza soluzione di continuità, è il reticolato offerto dalla libera associazione delle idee. Non esiste, per il resto, orologio o calendario che possa indirizzare la successione del tempo, né sono presenti barriere in grado di ostacolare la fuga del pensiero da una stanza all’altra, e tantomeno di impedire il progressivo ingigantirsi del percorso sotto il moltiplicarsi delle divagazioni.
La «casa» dell’autobiografia di Twain, per questi versi, può raggiungere dimensioni paradossali. Perché lo scrittore, se davvero vuole riprodurre il «torrente» di pensieri che scorre nella sua «testa», rischia di impiegare un intero volume solo per «descrivere in stenografia» quanto gli è accaduto il giorno precedente. Col risultato che un’autobiografia «completa» assumerebbe forme mostruose: «Se avessi compiuto il mio dovere autobiografico sin dalla gioventù – osserva Twain – tutte le biblioteche della terra non basterebbero a contenere lo sforzo». E non ci sarebbe da rallegrarsi troppo di fronte a una simile verbosità, se l’autobiografo non si fosse preoccupato di spandere in ogni angolo della sua infinita e infinibile autobiografia una spessa patina di quell’umorismo che costituisce – anche secondo la testimonianza di Susy – la cifra distintiva di ogni altro suo scritto.
Ma in che cosa consiste per Twain l’umorismo? Non si tratta soltanto del sorriso divertito con cui lo scrittore, ad ogni pagina, alleggerisce il peso delle sue digressioni autobiografiche. Secondo quanto Twain afferma in un saggio su Come raccontare una storia, l’effetto umoristico che si scatena nei suoi romanzi non dipende dal contenuto, ma dalle strategie di narrazione. A differenza delle storie «comiche» o «argute», che devono essere brevi e avere una conclusione, la storia umoristica può infatti «andare per le lunghe e uscire dal seminato quanto le pare, senza approdare sostanzialmente a nulla»: proprio come accade anche alle storie scaturite in sede di dettatura autobiografica.
Ma allora Twain, quando «mette su carta» la propria vita, non si trattiene dal riciclare la stessa tecnica letteraria dei suoi romanzi. E se si è affrettato a mettere al bando l’ordine cronologico dalle sue procedure, non è soltanto per incentivare l’interesse, ma anche per lasciare aperta la porta dell’autobiografia all’irruzione della letteratura. Non è un caso se le osservazioni di Twain sembrano ricalcare l’umorismo del Tristram Shandy di Sterne, un romanzo dove il narratore si ritrova sepolto da un groviglio di digressioni che, pur costituendo «l’anima» del libro, rischiano di amplificare il racconto all’infinito. Col suo metodo «innovativo» e all’apparenza «a-sistematico», Twain non fa altro che reimpiantare le fondamenta dell’autobiografia sullo stesso terreno della tradizione romanzesca umoristica.

Non c’è dunque da stupirsi se Twain, giunto a parlare della «camera» che custodisce l’autobiografia del fratello Orion, si decide a rivelarci la natura infida del proprio edificio. Al fratello, Twain aveva infatti confessato che un’autobiografia è sempre un gioco tra verità e menzogna: «l’autore fornisce la menzogna, il lettore fornisce la verità – ovvero arriva alla verità con l’intuizione». E se dunque il lettore vuole raccogliere questa sfida singolare, non gli resta che setacciare il «torrente» dei pensieri dell’autobiografo come una sorta di rabdomante in cerca di polvere d’oro; gli converrà seguire, in altre parole, «l’arte» praticata dalla madre di Twain, che secondo l’Autobiografia sapeva sfrondare dai «ricami» ogni racconto del figlio, per arrivare al «gioiello del fatto» dopo averlo estratto dalla sua «matrice d’argilla».

In ogni caso, per quanto lo scrittore possa mentire, ci penserà l’autobiografia a parlare alle sue spalle. Nella composizione autobiografica – ci ricorda Twain, prima di riconsegnarsi alle sue dettature – è sempre all’opera «qualcosa di sottile e diabolico» che sconfigge i tentativi avanzati dal narratore per dipingersi «a modo suo».