Stefano Mancuso, la salvezza è negli alberi
Biodiversità Intervista al botanico che ha scritto «La pianta del mondo». «Le città rappresentano meno del 2% delle terre emerse. Da questo 2% proviene l’80% di anidride carbonica, dei rifiuti e del consumo delle risorse del pianeta»
Biodiversità Intervista al botanico che ha scritto «La pianta del mondo». «Le città rappresentano meno del 2% delle terre emerse. Da questo 2% proviene l’80% di anidride carbonica, dei rifiuti e del consumo delle risorse del pianeta»
All’inizio di ogni storia c’è una pianta. A sostenere questa tesi è Stefano Mancuso, botanico, fondatore e direttore del Linv (Laboratorio di neurobiologia vegetale) di Firenze e docente all’accademia dei Georgofili. Ne La pianta del mondo (Laterza, 2020) lo dimostra con otto racconti che toccano argomenti storici, correnti ideologiche, la storia della musica, la chimica, la criminologia, e che legati con grazia l’un l’altro, corteggiano diversi generi e gusti letterari. Le parti del libro, del quale l’autore ha curato anche le belle illustrazioni, respirano insieme come una foresta dove la complessità scientifica è compensata da una piccola sinfonia di narrativa botanica. Ne abbiamo parlato con lui alla rassegna Leggermente a Livorno, in un caldo pomeriggio estivo.
Cos’è che ci impedisce di dare la giusta importanza al mondo vegetale, da cosa dipende questa nostra miopia?
Iniziamo dai numeri: benché noi umani usiamo il nostro punto di vista a carattere generale, gli animali rappresentano lo 0,3% della biomassa, contro l’85,5% del mondo vegetale. È evidente quindi che sia un’assurdità raccontare una storia senza piante. Questo atteggiamento, conosciuto anche come plant blindness è stato studiato; si tratta di una disfunzione cognitiva, perché il nostro cervello non funziona bene come crediamo. Abbiamo una capacità di percepire miliardi di bit di informazioni, dei quali riusciamo a calcolare solo 1000 al secondo contro i 5 miliardi in entrata; il nostro cervello è bravissimo a cancellare tutto quello che non ritiene importante. Ci siamo evoluti in un ambiente completamente verde, ma per tutelare la nostra sopravvivenza ci siamo concentrati sulla presenza di altri animali o altri uomini. Oggi la situazione è capovolta e dovremmo imparare a osservare il mondo vegetale per comprendere come funziona la vita e prendere i giusti provvedimenti per difenderla.
Siamo irrilevanti numericamente ma pesantissimi con le nostre azioni…
Certo. La nostra epoca si chiama Antropocene, proprio perché l’uomo è divenuto una forza tellurica, in grado di modificare le sorti del pianeta. Tra qualche secolo il 2020 non verrà ricordato come l’anno del Covid19 ma per un fatto passato inosservato e che invece è un evento epocale: il peso dei materiali prodotti dall’uomo-cemento e plastica-ha superato il peso della vita sul pianeta. In un tempo brevissimo-la vita umana sul pianeta- siamo riusciti a produrre una quantità di materiale superiore al peso della vita. Abbiamo lavorato sui due lati dell’equazione: riducendo il peso della vita da una parte e aumentando la produzione di materiali dall’altra. In 15mila anni abbiamo dimezzato la popolazione arborea, ma è stato negli ultimi due secoli che abbiamo tagliato un terzo di tutti gli alberi presenti sul pianeta.
Da uno studio sul costo della perdita della biodiversità è emerso che l’80% dei mammiferi presenti sul pianeta sono animali che mangiamo e l’85% degli uccelli sono pollame. Nel frattempo la Cina produce in un anno la stessa quantità di cemento che gli Stati Uniti hanno utilizzato nell’ultimo secolo e la produzione di cemento da sola incide del 25% sul tasso di anidride carbonica. Il problema del peso della vita è fondamentale; lo riduciamo in maniera drastica e produciamo materiale inorganico, senza renderci conto che noi stessi siamo parte della natura, che ha delle regole. Una di queste è che la natura è una rete, nella quale ogni specie ha bisogno di molte altre per sopravvivere.
Nel libro, si fa riferimento alla rete radicale che costituisce la pianta sotterranea delle foreste, che ne unisce gli alberi, per esempio. Ma il fulcro della nostra società è la città, un fenomeno ormai isolato dalla rete degli esseri naturali. Cosa si può fare per recuperare il rapporto con la natura?
Le città rappresentano meno del 2% delle terre emerse. Da questo 2% proviene l’80% di anidride carbonica, l’80% dei rifiuti e l’80% del consumo delle risorse del pianeta. L’impronta ecologica è la quantità di terreno che serve a ciascuno di noi per avere tutte le risorse di cui ha bisogno e per depurare i rifiuti che produce, si misura in ettari e mediamente a ciascuno di noi occidentali servono 5 ettari. L’impronta ecologica di una città è la somma di quella dei suoi abitanti. Quella della sola città di Londra è superiore all’estensione di tutta la Gran Bretagna; un dato abbastanza comune per tutte le città occidentali. Il paradosso è che le città sono anche il luogo più efficiente per far vivere le persone insieme, infatti quando aumenta il tasso di urbanizzazione aumenta anche la ricchezza. Quindi è impossibile immaginare un pianeta senza città che velocemente, nel giro di 50 anni, sono divenuti i luoghi dove risiede l’80% della popolazione.
Le nostre città sono fatte esattamente come nel neolitico, quando, non appena siamo divenuti stanziali, per difendere i primi insediamenti abbiamo iniziato a isolarli con steccati e fossati. Di nuovo, all’inizio della nostra storia poteva andare, ma oggi le città costruite solo per gli uomini sono completamente insostenibili, sono il motore del disastro ambientale. È una barriera culturale quella che ci impedisce di immaginare città ricoperte di verde; basti pensare al beneficio largamente dimostrato nel coprire scuole o ospedali con le piante. Si tratta di semplicissimi interventi che possono cambiare radicalmente in meglio le nostre vite.
Parliamo del riscaldamento globale…
Il riscaldamento globale, è il problema più grande che l’umanità abbia avuto nel corso della sua storia. Per fine secolo la temperatura sarà 5°C più alta rispetto al periodo preindustriale, un fatto che non si può liquidare pensando che avremo climi più miti, o che smetterà di nevicare. Dobbiamo immaginare il pianeta come un essere vivente, che ha la propria temperatura. È noto che noi umani, la cui temperatura è in media 36,5° possiamo morire se la temperatura sale e rimane a 39°: la stessa cosa accade al pianeta. Oggi lo 0,8% del pianeta non è abitabile per condizioni climatiche estreme; nel 2070 sarà il 18% e in questa zona vivono 2miliardi di persone, che si muoveranno per non morire. Tutto ciò che è legato al riscaldamento globale è un fenomeno esponenziale. Come il Covid19, per esempio. I 52°C registrati in Canada, o i 20,5°C in Antartide, le alluvioni etc. sono l’inizio.
Cosa si può fare e cosa è stato proposto per limitare l’aumento della temperatura terrestre così drammatica oggi?
Abbandono del consumo dell’energia fossile, trasporto elettrico, dieta vegetariana, sono tutte cose buone e giuste che agiscono sulla produzione di anidride carbonica. Se domani tutti gli abitanti del mondo vivessero una vita sostenibile, adottando queste misure, l’anidride carbonica nell’atmosfera continuerebbe comunque ad aumentare, solo a ritmo più lento. Del resto, per svuotare una vasca da bagno non riduciamo il flusso dell’acqua dal rubinetto, ma apriamo lo scarico. Le soluzioni che sono al vaglio sono stupidaggini. L’unica cosa che ci interessa, semplificando il problema è quanta anidride carbonica c’è nell’atmosfera. Se dal 1990 al 2000 l’anidride carbonica aumentava di 0,5 parti per milione ogni anno, dal 2000 al 2010 di 1 ppm, dal 2010 al 2020 di 2 ppm, si tratta di una crescita esponenziale che dimostra come i nostri provvedimenti siano per ora stati inutili.
Per tirar via l’anidride carbonica dall’atmosfera dobbiamo usare l’unica macchina in grado di assorbirla: gli alberi. Ne servono 1000 miliardi e non è un numero iperbolico; a noi italiani ne spetterebbero due miliardi e se soltanto utilizzassimo le terre abbandonate dall’agricoltura potremmo piantarne addirittura 6 miliardi. Questo ci permetterebbe di ridurre di 2/3 il surplus di anidride carbonica e benché sia la reale soluzione, nessuno ne parla perché mentre per la transizione elettrica delle automobili, per esempio, fa girare l’economia, il fatto di piantare alberi seppur molto economico, non muove denaro. Non c’è interesse politico perché piantare oggi un albero vuol dire aspettare venti anni per vedere i risultati. È una soluzione semplice, facile, elegante, che non richiede modifiche sostanziali del nostro sistema economico, che sarebbe iper positiva ma utopica, anche perché non abbiamo più tempo. L’unica cosa che possiamo fare e che riabiliterebbe l’intelligenza umana è piantare alberi.
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NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE:
Stefano Mancuso è professore associato presso l’Università di Firenze dal 2001 e accademico ordinario dell’Accademia dei Georgofili. Dirige il Linv (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale) con sedi a Firenze e Kitakyushu (Giappone).
È Principal Investigator del programma “Perception of gravity, signal transduction and graviresponse in higher plants” dell’ESA (European Spatial Agency). Ha condotto 8 campagne di voli parabolici per conto dell’ESA ed una per la DLR (Agenzia Spaziale Tedesca). È Membro Fondatore della International Society for Plant Signaling & Behavior e editor in chief della rivista internazionale omonima. È accademico di numerose altre società scientifiche internazionali. E’ Co-chair del panel Life science. Ha vinto nel 2002 l’European Award for Research and Innovation, ha vinto nel 2003 il premio «Antico Fattore». Nel 2010 è stato il primo scienziato che lavora in Italia invitato a un Ted Global a Oxford, e nel 2019 il «New York Times» lo ha inserito tra i divulgatori scientifici più influenti. È autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche sulla fisiologia e sul comportamento delle piante.
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