Che rapporto c’è tra una cinematografia nazionale e il Paese da dove questa proviene? Difficile a dirsi (soprattutto in poche battute), perché molte sono le variabili in gioco da prendere in esame. Si tratta certamente di un rapporto complesso, dove alle volte appare impossibile stabilire una corrispondenza precisa – vuoi soprattutto per gli effetti della globalizzazione, sulla produzione quanto sull’immaginario – mentre altre volte, per motivi che vanno al di là della natura dell’espressione audiovisiva, sembra invece possibile riscontrare qualcosa di simile a quanto avviene nell’ambito letterario di una cultura nazionale, dove vale l’assioma «una lingua è una patria» (nelle sue molteplici sfumature di senso). Al riguardo, se si rimane su quest’ultima lettura, fra i casi più interessanti da prendere in considerazione sembrano esserci alcune cinematografie extra-europee. E fra queste – senza dubbio – spicca quella russa: per le condizioni del suo sviluppo; per il fortissimo legame con la storia. Il cinema russo attraverso i film (Carrocci, euro 25) è un bel volume che raccoglie dodici saggi di dodici studiosi su dodici film russi. Alessia Cervini – ricercatrice all’Università di Messina, nel comitato direttivo del quadrimestrale di cinema Fata Morgana, autrice di studi sull’opera di Ejzenštejn – e Alessio Scarlato – studioso di estetica russa, autore di saggi sul cinema di Tarkovskij e Bresson – sono i curatori del progetto ma anche autori di due studi all’interno del libro: la prima sul film della Muratova, Dolgie provody (Lunghi addii, 1971); il secondo sul film di Tarkovskij, Stalker (id., 1979). Nell’ordine di apparizione, gli altri studiosi coinvolti e i relativi film analizzati sono i seguenti: John MacKay su Kinoglaz (Cineocchio, Vertov, 1924); Luca Venzi su U samogo sinego morja (Vicino al mare più azzurro, Barnet, 1936); Jamie Miller su Volga Volga (id., Aleksandrov, 1938); Roberto De Gaetano su Ivan Groznyj (Ivan il Terribile, Ejzenštejn, 1944-46); Antonio Somaini su Padenie Berlina (La caduta di Berlino, Ciaureli, 1950); Oksana Bulgakova su Letjat zuravli (Quando volano le cicogne, Kalatozov, 1957); Gian Piero Piretto su Ironija sud’by, s lëgkim parom (Ironia del destino, Rjazanov, 1975); Michail Jampol’skij su Moj drug Ivan Lapšin (Il mio amico Ivan Lapšin, German, 1982); Dunja Dogo su Brat (Fratello, Balabanov, 1997); Daniele Dottorini su Russkij konceg (Arca russa, Sokurov, 2002).

Ora, data la lista, di conseguenza sembra lecito chiedersi: qual è il criterio attraverso cui è avvenuta una tale selezione? E dunque: quale l’intenzione alla base di un lavoro del genere? Nell’introduzione, Cervini e Scarlato anzitutto rimarcano la centralità della Rivoluzione, come «una frattura che segna una nuova origine per il cinema russo» in grado di trovare «nel cinema non soltanto l’arte e lo strumento di comunicazione più importante, come recita la formula di Lenin continuamente ripetuta, ma anche uno dei luoghi di formazione della propria identità.» I due poi proseguono, più nello specifico: «cinema e Rivoluzione, dunque. Le dodici stazioni che abbiamo individuato non hanno evidentemente la pretesa di poter esaurire un discorso, ma permettono di segnare degli snodi fondamentali di un cinema che ha cercato di essere rivoluzionario nelle sue forme produttive, nelle sue linee tematiche, nei suoi procedimenti formali». Tutto questo – aggiungono – nonostante una serie di antinomie (due su tutte: il rapporto tra centro e periferia dell’industria, cioè tra «sovietizzazione» prima e recupero delle tradizioni autoctone poi; il rapporto con la religione). E infine, sottolineano la politicità in senso lato del cinema russo: «c’è insomma una relazione profonda che il cinema russo – in virtù della contingenza storica in cui esso ha conosciuto la sua prima e più rigogliosa fioritura – ha saputo (e per certi versi dovuto) costruire, e che non ha smesso di mostrarsi, in maniera evidente e a volte assolutamente problematica, in tutti i film che abbiamo incluso nel nostro percorso ideale attraverso una storia complessa, come quella che conduce dalla Russia pre-rivoluzionaria a quella post-sovietica. Si tratta del rapporto niente affatto pacifico tra forme estetiche e forme di vita o, per dirla con una forma semplificata, ma semplicemente riconoscibile, tra arte e politica».

In merito ai saggi – il cui montaggio idealmente delinea una traiettoria filmica della Rivoluzione da segno (in Vertov) a fantasma (in Sokurov) – val la pena aggiungere un paio di annotazioni. La prima riguarda l’impostazione degli interventi. Pur nelle singolarità delle voci, qualcosa di costante che alla fine soddisfa l’esigenza di offerta di uno strumento informativo e conoscitivo per i lettori non specialisti. La seconda riguarda la qualità degli interventi, sempre molto alta. Fra questi, si può menzionare il primo, per i temi in esame (MacKay è professore a Yale, in rete si può leggere parte del suo lavoro in corso su Vertov: http://yale.academia.edu/JohnMacKay/Papers) e quello di Jampol’skij, per l’esaustività e perché ci ricorda il bellissimo film e il suo autore, un cineasta straordinario: Aleksej German (20 luglio 1938 – 21 febbraio 2013).