Riprende la via del palcoscenico l’Arlecchino servitore di due padroni diretto da Valerio Binasco per la Stabile di Torino. Fresco e pimpante arriva alla Pergola (ancora domani) e restituisce il potenziale di commedia brillante, ma inquieta e malinconica, impressa alla rilettura del capolavoro goldoniano. Una quinta sale, una scende. È la vita bellezza. Una vita che gira su se stessa, senza garanzie. Bisogna cavarsela. Lo spazio è aperto, chiuso da porte che si aprono sul nulla (e nulla nascondono): percezione surrealista di un piano sequenza che tutto abbraccia e restituisce. Sono stazioni lunari di un lieto fine che sappiamo più posticcio che autentico. Binasco  parla di neo realismo, De Dica, Rossellini, travaso dalla commedia dell’arte alle maschere della commedia all’italiana. Nella coralità complice e affiatata dell’impresa, a prevalere è piuttosto un funzionale clima iperrealistico, una concitazione ludica ai limiti del farsesco, una irruenza comportamentale che frana nel parossismo: rarefatte dai contributi «tecnici» (scene di Guido Fiorato, luci di Pasquale Mari, musiche di Arturo Annecchino) e mitigate dal modus operandi di Arlecchino, un Natalino Balasso di tenerissima trama.