Fernando Acitelli è scrittore poliedrico,in possesso di un registro culturale davvero insolito,abbarbicato ad esperienze variegate,pittorica,architettonica,letteraria. E’ autore,per le edizioni Fahrenheit 451,di un romanzo singolare,”Cinema Farnese”. Trattasi in verità di una graziosa sineddoche giacché il nome dello storico locale costituisce più semplicemente una parte per il tutto laddove è Campo de’ Fiori il fondale delle peregrinazioni dell’autore che incontra una donna più grande di lui e da una mansarda posta nelle vicinanze egli scruta la vita fatta di personaggi singolari,di botteghe storiche,di manufatti che hanno fatto la storia dell’arte. La mansarda è chiaramente un pretesto,ancorché reale e testimone di un amore inaspettato,ma sono i percorsi di questo novello dubliner ad immergerci in una toponomastica quasi dimenticata nonostante i nostri stessi pellegrinaggi quotidiani. Acitelli ripercorre così una storia dell’arte della Roma barocca proponendosi -e in modo autorevole- come un Joyce contemporaneo che della memoria storica fa il suo punto di forza. Verosimilmente,un titolo più pertinente sarebbe stato appunto “Campo de’ Fiori” ma l’autore ha pensato bene che l’accostamento al film di Bonnard,oltre a costituire un’imitazione impropria,avrebbe generato equivoci perniciosi non tanto e non solo per il teatro della quotidianità che è identico nelle due occasioni,quanto per le storie dissimili.

Ne esce fuori un trattato socio-antropologico nella descrizione bonaria ma niente affatto superficiale dei fricchettoni che popolano il territorio mettendo alla berlina vizi e virtù,cliché e luoghi comuni dei compagni o,almeno,di alcuni di loro che,unitamente alla descrizione caricaturale di alcune veterofemministe del Governo Vecchio,danno vita ad un teatrino divertente al quale assistiamo riscaldati da un insolito affetto del puparo mentre muove le sue marionette. E’ un racconto fatto di visioni,di memoria condivisa,di vezzi,di irriverenza e di impertinenza come quando mette alla berlina la nobiltà nera e decaduta o come quando mette in ridicolo i modaioli d’antan perennemente fuori tempo massimo. Se dovessimo trovare un difetto o,meglio,una nota stonata diremmo che la liaison con Valeria,quasi alla fine del racconto,appesantisce l’intero impiantito. Se fosse possibile fare un paragone cinematografico con “Duel”,l’esordio di Spielberg,il braccio del camionista che faceva segno di passare rovinava l’incanto che quel bestione su ruote potesse essere una entità astratta del destino,capriccioso,mutevole e vendicativo,qui la descrizione di una mansarda magica che già tanto di sé aveva permeato la narrazione non contemplava la possibilità di un’ ulteriore incursione nel femminino. Epperò tutto il racconto è disseminato di attenzioni linguistiche( ‘superfetazioni’,’organi emuntori’,il ‘muschio’ come sinonimo di sesso,’le gambe a diademi venosi’,’soggolo’)e da una messe prepotente di un un armamentario culturale caleidoscopico.

In “Cinema Farnese” troviamo echi di Berto (un uso reiterato dell’asindeto),c’è “Il giovin signore” del Parini,ci sono le incespicature del draguer che avevamo trovato negli scritti giovanili di Pavese,Dorfles con il suo “Modi e mode”,il meglio di Calderòn de la Barca,Antonio Tabucchi di “Notturno indiano”. “Cinema Farnese” costituisce a buon diritto un baedecker per turisti metropolitani allettati da itinerari insoliti e da un mirador da dove l’osservatore acuto mette alla berlina vezzi e malvezzi ma guarda pure con animo benevolo i cambiamenti del costume di una città eterna con i suoi tòpoi che riesce a fagocitare figli e figliastri rendendoli stucchevoli ed eterni al contempo come spesso succede nella Città eterna.

Il romanzo(o diario delle passioni? o cronaca delle esclusioni? o timetable delle occasioni mancate?) tiene costantemente desta l’attenzione del lettore,lo incuriosisce,lo prende per mano in percorsi che cento e cento volte abbiamo impegnato distratti per farci accorgere di realtà sopite eppure sempre pronte per la nostra meraviglia e il nostro stupore. Una considerazione a latere è che sempre più spesso è l’editoria cosiddetta minore a doversi accorgersi di scritture estravaganti mentre quella più ‘paludata’ manda in stampa spesso prove sconcertanti.