Sulla Rai non mancano quotidiane notizie sui telegiornali (il tg1, in particolare, si è ridotto a fare il megafono di Giorgia Meloni) o sulle sorti dell’amministratore delegato Carlo Fuortes. Certo, si tratta di questioni assai delicate, essendo l’apparato di viale Mazzini di Roma intrinsecamente legato ai sussurri e alla grida del ceto politico: a partire dal governo.

Nell’approfondire il tema, viene subito alla mente l’assenza di una vera legge di riforma, che cancelli e superi l’attuale voluta da Mattei Renzi. Con quell’ultima virata si sancì il controllo del potere esecutivo. Oggi in parlamento sono depositati testi interessanti, promossi dal partito democratico con Andrea Orlando e dall’alleanza verdi-sinistra italiana con Nicola Fratoianni (quest’ultimo redatto su iniziativa del Move On).

Tuttavia, in attesa di una compiuta ridefinizione della Rai nell’età dell’infosfera, è bene capire com’è realisticamente la situazione odierna. Al di là, persino, dell’ipotizzato arrembaggio della destra di cui la striscia serale di Bruno Vespa è il sintomo esibito, sotto il profilo aziendale il vento che soffia non è benevolo. Innanzitutto, è ancora in via di definizione la commissione parlamentare di vigilanza, aumentata a ben 42 componenti in base alla recente legge n.12 del 9 febbraio scorso. Si tratta di una scelta incomprensibile, dopo il taglio del numero dei parlamentari. Ma è bastata simile iniziativa per bloccare diverse attività, a partire dalla stipula del nuovo contratto di servizio tra lo Stato e la Rai. In tale percorso decisionale, infatti, è essenziale la collaborazione della bicamerale, non essendo sufficienti le linee guida varate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Il citato contratto è scaduto e la data del rinnovo è stata spostata dal cosiddetto milleproroghe al prossimo settembre. Il primo della serie fu immaginato nel 1994, cui seguì quello del 1997 con durata triennale. I successivi (2000-2002 e 2003-2005) mantennero la tempistica, mentre il quarto prese la luce solo nel 2007 con due anni di ritardo. Il seguente (2010-2012) fu prolungato fino al 2018. Ed eccoci di nuovo all’ennesimo rimando. Il contratto, ora quinquennale, è delicato e dovrebbe incrociarsi con la riscrittura della Convenzione generale, che attribuisce alla Rai il ruolo di servizio pubblico. I pasticci in corso potrebbero, poi, avere come sottotesto proprio un ripensamento dell’affidamento esclusivo della missione prevista fin dalla riforma del 1975, riconfermata del resto da una copiosa giurisprudenza costituzionale. Da qualche lustro scava in profondità la talpa liberista, tesa ad inseguire il mito della privatizzazione. Una delle tesi della sbornia conservatrice passa per la revisione dell’identità soggettiva del servizio, che trae fondamento dall’attribuzione esclusiva del canone di abbonamento. E, guarda caso, il ministro Giorgetti ha rispolverato recentemente l’ipotesi avventurosa di togliere la voce del canone dalla bolletta elettrica, per ritornare al pagamento di una tassa tra le altre: un evidente invito all’evasione.

Conosciamo i guai economici della Rai, su cui è forte la tensione nel consiglio di amministrazione. Insomma, sono indizi che costituiscono già una prova. Per lo meno si colgono i desideri, ancora non espliciti chiaramente, di una destra restauratrice, ma assai sensibile ai richiami del mercato. Non dimentichiamo che la forza di Silvio Berlusconi non è sopita. E un probabile accordo interno alla coalizione di maggioranza riguarda verosimilmente la salvaguardia di Mediaset e contempla qualche colpetto all’ex monopolio.

Attorno al contratto di servizio si è sviluppato finalmente un dibattito non episodico. Ad opera di taluni soggetti (Infocivica, l’Associazione italiana di Comunicazione pubblica ed Eurovisioni, con l’adesione di Articolo21), si è aperta la discussione, chiedendo una consultazione aperta. Che i ritardi, dunque, servano a rivedere i criteri: non cos’è astrattamente il servizio pubblico, bensì perché è fondamentale nell’età degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale.