A Charleston dopo la strage si susseguono, per il secondo giorno, veglie e commemorazioni delle nove vittime cadute mercoledì sera sotto i colpi di Dylann Roof. Contro il ventunenne mitomane nostalgico della segregazione sudista, che voleva scatenare la guerra razziale sono intanto state formalizzate le accuse di nove omicidi. Il governatore del South Carolina ha già chiesto che nel suo caso venga applicata la pena di morte, e certamente sarà così nel paese dove è appena stato condannato Dzokhar Tsarnaev, autore dell’attentato alla maratona di Boston e dove si sta concludendo il processo, sempre per la pena capitale, di James Eagan Holmes che ha firmato la strage del cinema di Aurora, in Colorado tre anni fa.

All’indomani dell’ultima strage che ha sconvolto un’America sommersa da una marea di armi da fuoco, si parla subito di spargere altro sangue nel nome della giustizia, senza rilevarne il triste paradosso. Ben più ragionevoli al confronto le reazioni di molti parenti e parrocchiani della Emanuel Church che hanno mostrato tutt’altra stoffa morale parlando soprattutto di preghiera e di perdono.

Al centro delle reazioni e delle conversazioni sulla strage rimane oggi proprio quella chiesa, la Emanuel African Methodist Episcopal che come le altre «Ame» d’America (molte ieri riunite in veglie di solidarietà) aggrega la vocazione spirituale, ma anche l’impegno civile delle comunità afroamericane del paese. La parrocchia di Charleston in particolare, fra le più antiche, ha una profonda valenza simbolica che spiega perché sia stata scelta da Roof per il suo atto di terrorismo.

Nata come chiesa di schiavi, in contravvenzione alle leggi che vietavano ai neri il culto collettivo e l’alfabetizzazione, fu nel 1822 al centro di una rivolta di guidata da un ex schiavo, Denmark Vesey. Messa a punto in riunioni clandestine nella chiesa, il piano prevedeva l’insurrezione degli schiavi di Charleston che avrebbero poi utilizzato un bastimento ancorato nel porto per fuggire nella Haiti già liberata.

Il progetto fu poi scoperto e Vesey impiccato a un albero che esiste ancora nella città. La strage proprio in quel luogo si lega dunque direttamente alla storia dolorosa del sud (e della nazione), un peccato originale più rimosso che elaborato. La conferma più lampante continua anche in questi giorni di cordoglio, dato che a svettare davanti al parlamento del South Carolina c’è la bandiera con le stelle incrociate degli stati «ribelli» della confederazione, riverita come tributo alle «tradizioni» del sud che i moderni stati ex-confederati insistono nel promulgare come vessillo semi-ufficiale, spesso incorporandolo in bandiere e stemmi araldici.

Quella stessa bandiera era fieramente ostentata da Roof nelle foto disseminate in rete. Quella delle autorità appare come una misura di insensibilità per la comunità vittima della strage, che da decenni chiede in Carolina, Mississippi, Alabama, Georgia e altri Stati, che la bandiera schiavista venga rimossa.

La strage si è dunque inserita nella polemica nazionale sul razzismo, grazie all’iconografia che inchioda il paese ad un retaggio da cui non sembra riuscire a sottrarsi, pure nelle ultime battute della prima presidenza afroamericana della sua storia.

Charleton è speculare ad episodi, come l’attentato dinamitardo alla 16th Street Church di Birmingham in cui nel 1963 persero la vita quattro bambine nere durante una messa. Quelle bombe nell’Alabama di George Wallace e Martin Luther King furono un evento coalizzante del movimento dei diritti civili. La strage dell’Emanuel avviene nel mezzo di un nuovo movimento che denuncia un razzismo istituzionale e culturale mai risolto ed evidente nella strage (non tanto) silenziosa delle uccisioni della polizia.

Dall’inizio di quest’anno sono già oltre 500 gli individui morti sotto i colpi di agenti in servizio – più di cento le vittime disarmate, in maggior parte afroamericane. Dato sconfortante, mentre volge al termine il secondo mandato del primo presidente nero, che mette in luce storici mali americani: discriminazione e cultura della violenza armata.

A quest’ultima ha fatto riferimento Obama quando ha ricordato che solo in America le stragi avvengono con simile frequenza (ed efficacia). Un dato di quasi banale verità, che rimane tuttavia intrattabile tabù grazie ad una cifra culturale connessa a tradizioni violente e diffidenze razziali.