Italo Svevo ricorda in una lettera l’affermazione di James Joyce, secondo il quale «nella penna di un uomo c’è un solo romanzo e quando se ne scrivono molti è sempre lo stesso più o meno trasformato». Per quanto possa sembrare paradossale, l’assioma costringe a pensare e lascia che associazioni mentali si stabiliscano tra opere diverse, trovando, nella loro struttura, la continuità dei temi insieme con la differenza dei singoli risultati. Applicata a Domenico Starnone, questa suggestione provocatoria permette di collegare il suo ultimo romanzo, Vita mortale e immortale della bambina di Milano (Einaudi, pp. 152, € 16,50) al nucleo essenziale della sua narrativa: il libro sembra situarsi, infatti, nell’ombra ampia del fondamentale Via Gemito, punto di riferimento del romanzo italiano contemporaneo e passaggio essenziale nella vita letteraria dell’autore.

Come nel modello preesistente, articolato sullo scenario di una strada in cui le vite si formano e divengono, anche in questa vicenda tornano gli ambienti napoletani dell’infanzia, la trama delle relazioni familiari, l’accenno di un processo di formazione che guida verso un differente contesto umano e sociale. Lo sguardo che osserva i fatti accaduti è, in maniera simile, quello adulto, che si sporge indietro nel tempo e recupera frammenti ancora caldi della vita passata. In questo testo, in particolare, la memoria ripercorre una storia d’amore infantile, conservata come una reliquia in un luogo speciale della mente.

Questa l’epifania del sogno
La prima parte del romanzo evoca le fasi dell’innamoramento, generato dall’apparizione di una bambina che danza sul balcone. La visione si imprime nella memoria come l’epifania di un sogno. Riempie la fantasia del bambino che la guarda e ne aspetta il ritorno con la frenesia di un innamorato incantato. Per ottenere l’attenzione della sua dirimpettaia può affrontare duelli cavallereschi con armi improvvisate e con l’entusiasmo di un guerriero pronto a tutto: «Noi giocavamo a uccidere e essere uccisi su concreti sfondi domestici, per strada, nel cortile, in una pericolosissima confusione di realtà e finzione».

Senza nome per gran parte della storia, la dirimpettaia è la bambina di Milano, città che non indica l’appartenenza a un’altra regione, bensì allude alla diversità di pronuncia nel parlare l’italiano. L’alterità del luogo, situato altrove rispetto all’orizzonte popolare del piccolo protagonista, connota la sfumatura elegante che distingue i suoni e la voce dalla cadenza impura del dialetto. La passione infantile innalza la grazia dell’amata in una sfera definitiva. La assume dentro una personale vita nuova e, anche quando il tempo altera i destini, quell’antica esperienza si prolunga, con una seduzione intatta, nella corrente della vita adulta.

Il narratore, ingarbugliato «dentro la matassa dell’infanzia», sa, a distanza di anni, che sta raccontando, in quel frammento remoto, la sua «esperienza primaria della fine» e che Amore e Morte sono i reali attori al centro della scena. Nella trama delle parole egli ricostruisce la fascinazione di quella che Bobi Bazlen chiama la primavoltità e che è la potenza magica della prima emozione davanti alle cose del mondo.

Tuttavia, non tutto il romanzo di Starnone si risolve nella genesi dell’amore. L’innamoramento adolescenziale non è l’unico termine della vicenda. Un’altra esperienza si accompagna alla scoperta di Eros ed è la presenza della Morte. Il titolo del romanzo, d’altra parte, propone a chi legge una doppia designazione: vita mortale e immortale della bambina di Milano. La Morte appare nel sistema del romanzo fin dalle prime pagine e costituisce il controcanto dell’amore. I due termini sono serrati in un legame unico, che li ingloba in maniera inscindibile.

Starnone, nelle prime pagine, cita il mito che più direttamente fissa la relazione di Amore e Morte e la mette in azione. Il mito è naturalmente quello di Orfeo e Euridice. L’antico racconto evoca la possibilità di discendere fino nel regno dei morti per restituire alla vita la persona amata. Questa suggestione letteraria non è l’unica traccia lasciata nel corpo del romanzo. La memoria mitologica si fonde con l’idea folclorica di una morte animata, nel cui buio una specie di vita continua a esistere. Starnone affida alla cultura popolare della nonna del protagonista il compito di descrivere, con le parole e con il timbro del suo dialetto, l’esistenza sotterranea dei morti. Il racconto di antiche leggende diventa un cunto alla Basile, in cui la separazione tra la vita e la morte può essere una linea sottile, che si attraversa in continuazione: «La fossa, cominciò, ha un coperchio. Chistu cupiérchio è di marmo, e ha la serratura, la catena e il catenaccio, perché se uno non lo chiude come si deve, gli scheletri con ancora un po’ di carne addosso s’affollano tutti quanti per uscire, insieme alle zoccole che gli corrono sopra e sotto alle lenzuola gialle di sudore per il recente sparpetuo».

In questo mondo sotterraneo abitano demoni feroci come gli «angeli con le penne nere che erano mala gente e passavano il tempo a svolazzare nei vortici di polvere» oppure si muovono genietti perfidi e bizzarri come gli scazzamaurielli, che «abitavano nella fossa dei morti, correvano e saltavano per il petraio strillando e ridendo e malmenandosi reciprocamente». Tuttavia, nell’intreccio Amore e Morte non sono i soli principi a muovere le emozioni. Acquistano significato quando il vissuto si trasforma in suoni, parole e racconto. Diventato adulto e futuro scrittore, il bambino di un tempo può affermare che la sua esistenza è governata da tre leggi e che l’Amore e la Morte si sublimano nella Scrittura. Ma questo alfabeto dell’anima non possiede la purezza di un monumento perenne. Lotta con le abrasioni del tempo. Convive con il disfacimento che ingoia le cose umane, cancellando qualunque ricordo.

Dall’ossessione per la glottologia
Nessuna sopravvivenza è possibile se non passa attraverso l’ombra della morte: «solo le parole scritte sui papiri carbonizzati e corazzati da roccia lavica – solo le parole senza suono di un epicureo defunto da tempo, l’ottimo Filodemo di Gadara coi suoi segni mortuari vergati su altra morte, quella delle verdi piante palustri rizomatose con cui si faceva carta egizia –, solo quelle duravano, pur bruciando, pur carbonizzandosi, e per secoli restavano in attesa paziente di essere lette, di ridiventare addirittura voce, oggi, domani, sempre».
Dei propri studi universitari Starnone sottolinea una privata ossessione per la glottologia, che, in virtù della scrittura fonetica, permette di riprodurre i suoni e renderli stabili. L’attrazione per la glottologia si incrocia con il fascino opposto esercitato dai papiri, sopravvissuti all’eruzione del 79 d.C. mutili e cassati.

L’antitesi tra queste esperienze mette in scena il contrasto tra la memoria che vuole consistere e l’approssimazione delle parole che la rianimano. Il narratore sa che le parole sono solo una perifrasi rispetto alla sostanza della vita vissuta: riprodurre i pensieri è un’illusione, che si scontra con la caducità delle soluzioni volta per volta raggiunte. Si scrive la vita «mescolando il Vesuvio, Pompei, Ercolano e una bambina milanese».

La coscienza di questa labilità imperfetta non spegne il desiderio di risuscitare i fantasmi di una volta. Provarci sta sempre dalla parte della vita, anche se si sa che «quel piacere è fragile» e «stenta a risalire la china delle vere priorità».