E’ passato poco più di un anno dalla scomparsa di Domenico Colantoni (1938-2018) che, dall’inizio dei ’90, si era ritirato a Paterno, paese natio a pochi chilometri da Avezzano, allontanandosi così dall’ambiente artistico romano in cui era approdato nel 1957 e dove aveva raggiunto una certa notorietà a partire dalla fine degli anni 70. Instancabile pittore e formidabile disegnatore (aveva studiato a Urbino all’Istituto di grafica e microincisione presso la Scuola del libro), Colantoni ha realizzato anche alcuni film in super 8, invisibili da tempo e attualmente oggetto di restauro e digitalizzazione grazie al figlio David. Ma più in generale è tutta l’opera dell’artista abruzzese che andrebbe rivalutata, dai dipinti alle slides di cui si è spesso servito per le sue ricerche iconografiche.

I cinque film, realizzati tra il 1974 e il 1978, all’epoca al centro di polemiche letterario-giornalistiche sollevate soprattutto dal contenuto erotico (e in alcuni casi pornografico). Ma, al di là del corpo esibito in tutta la sua “provocatoria” nudità, questi film denotano un interesse comportamentale, sociologico e antropologico nei confronti di una quotidianità borghese fatta di gesti, rituali, parole, spazi e oggetti.

Se si eccettua L’incidente (1974) – che è in realtà una multiproiezione di diapositive con sonoro – il primo film di Colantoni è Eros e Tanathos (1975), costruito sull’alternanza di spezzoni pornografici con i loculi del Verano; un parziale found-footage, dunque, che, con una certa carica di irriverenza, fonde insieme la desolazione funebre con l’oscenità vitalista, accomunate entrambe da una visione serializzata e ripetitiva. Il successivo, Storia d’amore (1974-75), è forse la sua opera più riuscita, poiché l’artista convince una coppia di mezza età a raccontarsi davanti alla cinepresa, anzi a mettersi letteralmente a nudo con un’autenticità straordinaria. L’obiettivo zooma e dettaglia sull’uomo e sulla donna di cui non vediamo mai il volto intero, ma anche su elementi di arredo: un seno, il pube femminile, un rubinetto che gocciola, una spalla, un mobile, l’ombelico, una fotografia incorniciata, l’organo maschile, un orologio al polso, un piede, la pentola sul fornello. Così frantumati, i corpi, immobili e sgraziati, parlano allo spettatore ancor più delle loro voci fuori campo che, con un sanguigno accento emiliano, ci raccontano due realtà diverse: se lui si vanta di essere mentalmente aperto e di allontanare la noia dal loro mènage, lei rivela di essere schiacciata dalla routine e di sognare la fuga dai doveri familiari, arrivando perfino a confessare gli inviti a partecipare a orge, declinati per fedeltà al marito o per disgusto. Storia d’amore è, insomma, un esperimento in linea con i tempi e descrive la falsa liberazione sessuale di una piccola borghesia che vive nella provincia italiana, imprigionata tra le mura domestiche pervase da un forte odore – concreto e metaforico – di putrefazione.

Non a caso Marco Ferreri presentando in catalogo la mostra Reperto Coppia: scrisse “La coppia va distrutta indipendentemente da ogni altra ragione. Di per sé, come male specifico, intrinseco, come fonte di morte. Mi sembra che Colantoni abbia capito tutto ciò, come appare da quest’ultima sua serie di opere pittoriche, e dai suoi brevi ma straordinari film, ed è per questo che io lo sento fratello”. I quadri cui allude l’autore di Dillinger è morto costituiscono una galleria di coniugi ritratti su fondi neutri – di cui faranno parte anche Robert Altman e signora (l’opera è oggi inclusa nella collezione del MACRO di Roma) – dedicato proprio alla crisi della famiglia.

Il set di Interno 25 (1976) e Amour et Joie sont ma vie (1978) è, invece, la stessa abitazione dell’artista, disordinata e traboccante di oggetti e quadri. In Interno 25 la cinepresa deambula per mezz’ora tra il corridoio, l’ingresso e le stanze; è uno spazio vissuto ma al tempo stesso abbandonato, poiché svuotato dei suoi abitanti. Anche qui le immagini sono accompagnate da un audio che costituisce un flusso parallelo e ininterrotto: l’audioregistrazione di un vero litigio tra i vari componenti della sua famiglia. L’effetto che suscita è quasi ipnotico, poiché il nostro sguardo naufraga in questo interno disastrato dove l’arte si mescola alla vita di tutti i giorni. In Amour et Joie sont ma vie l’unica presenza è quella della moglie del pittore, Ornella Cervoni che, dopo essersi svegliata e lavata, si abbandona in salotto a un atto di autoerotismo, utilizzando tra l’altro una testa di legno del ‘600 napoletano, le cui sembianze ricordano curiosamente il marito: un simulacro che funge da sex toy ante-litteram.

Ultimo film realizzato da Colantoni, Acrilico (1978), è di ben diverso tenore: si tratta infatti di una provocazione estetico-politica, di una performance con l’artista che, coadiuvato da altri amici artisti e intellettuali, produce nel suo atelier 52 tele con la falce e il martello da spedire al collezionista che aveva deciso di troncare i rapporti con lui in quanto “comunista”. Una voce femminile a inizio film ci informa dell’antefatto, mentre nel finale il poeta Elio Pecora si abbandona a un balletto classico circondato dalle tele di rosso dipinte.

A parte un paio di incursioni in esterni, i film di Colantoni sono tutti ambientati in appartamenti, in spazi claustrofobici dove le esistenze bruciano fino a consumarsi. Luoghi ridondanti di suppellettili, musei del vivere quotidiano che comunicano sensazioni contrastanti: passione e solitudine, anarchia e degrado, amore e morte. Un’altra peculiarità del suo cinema amatoriale (in tutti sensi) e d’artista, è la separazione tra l’immagine e la parola, lo scarto tra il corpo e la voce, che Colantoni ricerca accuratamente, scomponendo visivo e sonoro su due piani diversi: un escamotage dettato ovviamente da un pauperismo tecnologico, cioè dalla difficoltà di sincronizzare l’immagine con la colonna audio del super 8, ma che finisce col diventare una scelta estetica piuttosto riuscita, nonché la metafora di una scissione psico-visiva.

Riguardo ai suoi film, all’epoca si fecero i nomi di Warhol, Cassavetes, del cinema-verité. I cortometraggi furono proiettati nei cineclub romani e suscitarono dibattiti sui giornali, tra cui un intervento di Adele Cambria, scrittrice e femminista, che attaccò Colantoni per il modo in cui aveva ridotto ad oggetto la moglie in Amour et Joie…, mentre Natalia Ginzburg, pur trovando interessanti i suoi film si lamentò dei compiaciuti atti sessuali in Eros e Tanathos; ma Moravia invitò Colantoni a contare il numero dei fotogrammi porno e ne venne fuori che duravano poco più di 1 minuto sui 12 complessivi, concludendo: “Colantoni ha di Eros e di Thanatos cioè della vita e della morte una concezione schiettamente rustica, italiota, pompeiana. La morte per lui è il Verano di Roma con i suoi loculi sordidi, la sua minutaglia di fiori marci, di foto formato tessera, di croci, di statuette, di vasetti e di simboli funerari: la vita, invece, è semplicemente il fallo in stato di erezione, punto e basta”. Fallo che si erge come un obelisco in una delle tele dell’artista e che compare anche nella stanza da letto di Amour et Joie… .

Ma, a prescindere dai film, l’opera pittorica di Colantoni rimanda spesso al linguaggio del cinema, come nel caso dei ritratti di Moravia o di Altman, accompagnati da tele di contorno che riproducono dettagli o una successione di inquadrature. Partito dal surrealismo, il pittore abruzzese approda a uno stile iperrealista, inaugurando negli anni ’80 una serie di nature morte con sullo sfondo ariosi paesaggi naturali. Sembra quasi che, nell’ultima fase della sua ricerca artistica, Colantoni si sia voluto depurare visivamente, allontanandosi dagli asfittici interni filmati e dalle sue ossessioni erotiche, spesso incarnazione di una decadenza borghese più che espressione di una battaglia anticonformista, riconquistando un orizzonte naturale e metafisico intriso di innocenza perduta, anche se questa frutta riprodotta con esattezza fiamminga formato (150×200), mantiene intatta una sua carica passionale, un eros luministico-cromatico cui l’artista non ha mai potuto rinunciare.