E’ del poeta tedesco Heinrich Heine la più fortunata formulazione di quella leggenda secondo la quale gli antichi dei, dopo l’avvento del cristianesimo, non rassegnandosi all’esilio, sarebbero ancora vissuti incogniti fra i mortali, dividendone i letti e il pane. Ora, anche chi non abbia familiarità con l’opera di un Nietzsche, di un Pater o di un Burckhardt non durerebbe fatica a credere che la stagione in cui ciò fu più vicino a realizzarsi fu quella rinascimentale. E ci indurrebbe a pensarlo, tra gli altri indizi, quel costume, già diffuso presso gli imperatori latini – si pensi alla celebre statua di Commodo in figura d’Ercole ai Musei Capitolini –, e rifiorito poi in quel tempo nelle classi elevate, di farsi rappresentare con gli attributi di divinità pagane, come fecero Cosimo I e Andrea Doria, dipinti dal Bronzino l’uno in veste di Orfeo e l’altro in quella di Nettuno.
Né mancavano, in questa reviviscenza del paganesimo, le divinità femminili: la panoplia di Minerva serviva a esaltare l’accortezza d’una dama, il velo di Venere per celebrarne le grazie. I ritratti delle bellezze più famose dell’epoca venivano collezionati in apposite stanze, che dalla Ciprigna prendevano il nome, oppure in gabinetti o stanze nuziali, spesso introdotti da tele raffiguranti episodi legati al mito della dea.
A un tal genere di ritrattistica femminile (i cui prototipi possono individuarsi nella Simonetta Vespucci di Piero di Cosimo, oggi a Chantilly, e nel cartone della Joconde nue, che la tradizione riferiva a Leonardo), e alle famose beltà che ne fecero da modelli, è dedicato il libro di Francesca Cappelletti Le belle Ritratti femminili nelle stanze del potere (Mondadori «Scie», pp. 171, 32 immagini a colori, euro 21,00), che ricostruisce devotamente la storia di alcune fra queste collezioni di «Veneri viventi».
Quali fossero gli intenti dei committenti non sempre è facile dire. L’autrice ricorda l’amore di Pigmalione per la statua da lui modellata, ma la mitografia antica ci ha tramandato anche un’altra storia che può offrire un leggendario fondamento a questo amore peculiare per gli eidola: quella di Laodamia, che, dopo essersi fatta fabbricare un’immagine in bronzo del marito defunto, trascorreva le notti coprendola di baci, come riferisce Igino. Ma se la passione di Laodamia può annoverarsi tra le mostruosità, quella manifestata dal cardinale Alessandro Farnese per un nudo di Tiziano, sul quale il prelato avrebbe voluto far dipingere i lineamenti della propria amante, rientra piuttosto nei tratti di una sensibilità particolare.
Il caso, d’altra parte, non doveva essere tanto insolito se, come spiega la Cappelletti, quella di adattare il volto di una vivente a un corpo modellato su una statua antica era una pratica all’epoca piuttosto comune. Ne fa fede il dipinto di Jacopo Zucchi, La pesca del corallo, conservato alla Galleria Borghese e al quale sono dedicate delle stimolanti pagine del libro, che mostra, sopra una rutilante congerie di perle, conchiglie e coralli, Clelia Farnese trionfante in veste di Anfitrite.
Divinizzare la bellezza era, innanzitutto, una maniera di farla risplendere dell’eterna giovinezza di un’ Ebe o di un Ganimede, dal momento che, affermava monsignor Della Casa, la potenza del ritratto sta proprio «nel celebrare le fattezze di una donna giovane, le quali adesso non erano più visibili nel soggetto vivente». A un’esigenza di vincere il tempo (esigenza che Edgar Allan Poe portò alle sue conseguenze fantastiche nel noto racconto Il ritratto ovale) rispondeva, dunque, ma solo in parte, un tale genere di pittura. Dico in parte, giacché una componente cospicua era invece rappresentata dall’elemento afrodisiaco. Perciò, sebbene Venere – a differenza di Andromeda, le cui nivee carnagioni arrossate e costrette da crudeli lacci potevano offrire la stessa qualità di delectatio morosa delle liriche di Anton Giulio Brignone Sale sulle cortigiane fustigate – fosse anche la protettrice delle unioni coniugali, le raffigurazioni dei suoi amori erano spesso riservate alle ville suburbane di sollazzo oppure alle alcove.
Tuttavia nel Seicento, come documenta e racconta Le belle, di queste stanze delle Veneri se ne contavano anche nei palazzi cittadini e in posizione tutt’altro che appartata. Quella romana di Camillo Pamphilj era ubicata al piano superiore dei saloni di rappresentanza, «in una serie di ambienti la cui connotazione oscilla fra l’uso privato e il passeggio piacevole ed erudito», e contava fra le opere anche i Baccanali di Tiziano e la Lotta di putti di Guido Reni.
Un’altra, non meno celebre, era quella di Palazzo Borghese in Campo Marzio, voluta dal principe Giovanni Battista: «dalle dimensioni più ampie di un camerino e di un’alcova», comprendeva «ben quarantaquattro quadri di soggetto omogeneo, fra il mitologico e l’erotico».
Le stanze delle Veneri durarono fintantoché il moralismo del XVIII secolo non le giudicò sconvenienti. La Lotte di Werther somiglia poco a un’Afrodite, semmai a una Madonna. «Sostituite, sublimate o ricondotte ad ambienti codificati – scrive la Cappelletti –, le Stanze di Venere dunque si sfaldano e le immagini si disperdono nuovamente nelle Guardarobe, nei camerini, nelle logge delle ville; nell’unico luogo in cui sembrano ancora concentrate, all’inizio dell’Ottocento, costituiscono più che altro un problema da affrontare, l’oggetto continuo di decreti per decidere la loro sorte».
Esemplare è il caso della collezione Sacchetti: donata alla Pinacoteca Capitolina, venne giudicata troppo indecente per essere mostrata al pubblico, si preferì così donarla tra il 1844 e il 1845 all’Accademia di San Luca, dove gli artisti avrebbero saputo guardare quei corpi fatti per sedurre col frigido occhio di un anatomista o al più di un erudito. Dopo averle celate alla vista (con l’eccezione di quelle zuccherine e artificiose alla Bouguerau), l’Ottocento relegava dunque tutte queste Afroditi nel deposito dell’inconscio, da dove, sul finire di quello stesso secolo, la psicoanalisi le avrebbe tratte fuori. Al tempo della Secessione, d’altra parte, persino Minerva perse la sua castità. Venere in soffitta. Venere in pelliccia.