Indossava con eleganza e un certo sussiego il nomignolo di The Sound, pare si adontasse quando la rivista DownBeat, dopo anni di suo predominio, gli preferì in classifica John Coltrane nella specialità del sax tenore ma resta il fatto che pochi altri jazzisti hanno lasciato un ricordo, una particolarità del suono, tanto definito nel senso comune quanto Stan Getz, mancato a soli 64 anni in un ospedale di Malibù, per un cancro al fegato, il 6 giugno 1991.

SPERIMENTALISMO
Non ha segnato un’epoca, tanto meno ha aderito a una poetica organica e tuttavia ha definito uno stile che è rimasto fedele a se stesso nonostante Getz, musicista precocissimo, sia passato in poco più di un decennio dall’era swing al bop e a uno sperimentalismo tutto suo che ha escluso d’acchito il free (ai suoi occhi una vague musicalmente indefinita e intemperante) per confrontarsi con universi musicali dai puristi ritenuti alieni quali la bossa nova cui è legato il successo planetario dell’album, pare registrato in tre ore, Jazz Samba (’62) e del brano che lo apre, a firma Tom Jobim, Desafinado.
Impeccabile esecutore, vero discepolo di Lester Young pure se rispetto alla tonalità soffusa e rilassata del maestro in lui subentra un lirismo morbido ma più nitido e asciutto, un timbro più deciso che infatti non dissimula la lezione parallela di Charlie Parker, Getz nasce a Filadelfia nel ’27 come Stanley Gayetsky, i suoi sono ebrei russi, suo padre un sarto: si forma a New York, nel Bronx, è un enfant prodige che esordisce a sedici anni di fianco al trombonista Jack Teagarden e lavora per formazioni cospicue, da Stan Kenton e Jimmy Dorsey a Benny Goodman e Woody Herman, però rimane un adolescente introverso, scorbutico, che già sconta la dipendenza da eroina e talvolta si abbandona a gesti inconsulti come quando, a Seattle, simula una rapina, tenta il suicidio e viene condannato a sei mesi di reclusione unitamente a tre anni di libertà vigilata. (Sia detto per inciso, è ancora da scrivere la storia della minoranza ebraica nel jazz, che non è certo assimilabile senza mediazioni alla categoria dei «bianchi» come pure nel grande libro di LeRoi Jones, Blues People, 1963, perché il successo sorridente dei Benny Goodman e degli Artie Shaw non può nascondere il fatto, ad esempio, che pur nascendo nella laica e democratica San Francisco del 1924, Paul Emil Breitenfeld debba cambiarsi il nome in Paul Desmond). Ma sono anni per Stan Getz di apprendistato e di progressiva consapevolezza artistica, perché presto va a lavorare a Los Angeles e nei club di Santa Monica dove il jazz sembra conoscere una stasi dall’ardore del bop e quasi concentrarsi in una seduta prolungata di autocoscienza.
Getz è un esecutore sopraffino e se non ha, per restare ai coetanei, né il genio di frontiera e puramente euristico di un Coltrane né l’inventiva di un compositore e arrangiatore come Gerry Mulligan, ha comunque un tale equilibrio stilistico da saperlo mantenere intatto anche in presenza di personalità spiccate vicino a lui. Perciò sarebbe interminabile la lista delle collaborazioni di chi fu un vero e proprio maestro del cosiddetto interplay, dove compaiono Bill Evans, Chet Baker (i loro live, molti dei quali in rete, propongono certo una musica cool, raffinata, quasi un bop del tutto introverso, ma rifulgono di un loro jazz lirico al quadrato), persino un Miles Davis appena convertito al suono elettrico, infine lo stesso Mulligan che tanto lo ammirava dichiarando una volta a Jazz Magazine di invidiargli «la magnifica sonorità e la capacità di tracciare linee melodiche piene di swing e lirismo». Viene anche da pensare che proprio della musica di Mulligan egli fosse l’interprete ideale, capace cioè di apportare una necessaria vibrazione, uno spessore di penombra, a dei costrutti di esattezza cartesiana, come nel caso del celebre standard Line for Lyons, accessibile su YouTube e in plurime versioni, tra cui quella di Stoccolma 1983 nel duetto con Chet Baker in cui, per una volta, si vede Getz roseo e rasserenato, a tratti sorridente, l’opposto della mutria impassibile con cui era solito salire sul palco, forse a schermo della morbosa emotività che il diffuso sudore non riusciva a nascondere.

RISERVATEZZA
Amava i gesti misurati e antiretorici del professionista, manteneva con il pubblico un distacco evidente, la sua esibizione non durava un minuto di meno o di più del convenuto per contratto, quando usciva di scena dopo un breve cenno del capo. Niente di più antipode all’esibizionismo e alle autentiche provocazioni di un Davis o alla dichiarata militanza di un Archie Shepp, tanto che a Umbria Jazz, nei pieni anni Settanta, gli accadde di venire apertamente contestato da alcuni giovani del movimento sia per la sua estraneità e anzi la palese contrarietà al free jazz sia per la renitenza a un esplicito impegno politico come documenta l’ottimo volume monografico di Alain Tercinet, Stan Getz (Editions Parenthès, 1989), già prefigurato nell’affresco del medesimo autore, West Coast Jazz (ivi 1986). Certo è che quegli stessi anni Sessanta che sembrano presagire il tramonto di Getz in realtà ne sanciscono il successo. La storia del suo incontro con la bossa nova è stata troppe volte raccontata per doverla ribadire (in podcast è disponibile 1962: jazz e bossanova cinquant’anni dopo, la accurata ricostruzione che ne fece Marcello Lorrai nel 2012 per la Radio Svizzera Italiana) se non per i sommi capi che rinviano a Jazz Samba e agli album immediatamente successivi oltre che al rapporto con João Gilberto e con l’improvvisata interprete di Garota de Ipanema, Astrud Gilberto, quella che fu per qualche tempo la sua compagna e musa al culmine di una vita sentimentale complessa e convulsa.
Il lascito artistico di Stan Getz si contiene in una trentina di album pubblicati in vita e in una quantità di edizioni postume. Di qualità ovviamente diseguale, vi rimangono comunque i quattro o cinque vertici della sua parabola troppo breve: un brano giovanile ma già d’autore come Early Autumn (’48) al tempo dei famosi Four Brothers, sassofonisti nella band di Woody Herman; l’album Hampt and Getz (’55) firmato in piena stagione bop con un autentico tradizionalista, Lionel Hampton, dove spicca la versione scatenata, non meno di nove minuti, dello standard parkeriano per eccellenza, Cherokee; poi, registrato con una propria formazione, Focus (’61) che immette immediatamente in Jazz Samba e negli anni di un successo che non gli impedì, nonostante l’imperversare dei critici e dei contestatori politici, alcune ricerche di grande valore come nel caso dell’album Sweet Rain, preparato in quartetto nel ’67 con Chick Corea al piano, Ron Carter al contrabbasso e Grady Tate alle percussioni. E a quanti ancora si attardano sugli stereotipi del jazz caldo e freddo o sulle metafisiche identitarie andrebbe ricordato che Stan Getz ha voluto vicino a sé in sala di incisione musicisti neri della caratura, fra i tanti, di Hank Jones, Carly Russell, Max Roach, Percy Heath, Tommy Potter e che è stato ancora lui, indenne dalle gelosie e invidie tipiche del suo ambiente, a lanciare un pianista fuoriclasse quale Horace Silver: dopo tutto a «nice bunch of guys», disse qualcuno, un bel mucchio di ragazzi.