In uno dei suoi aforismi dal sapore oracolare Ludwig Wittgenstein affermò che il dono è «un problema da risolvere». E una storica autorevole, Natalie Zemon Davis, lo ha icasticamente definito un territorio dai confini incerti, «attraversato da molti sentieri».
Basti questo per capire quanto insidiosa sia la materia che Lavinia Scolari ha affrontato nel suo Doni funesti Miti di scambi pericolosi nella letteratura latina (Edizioni ETS «Testi e studi di cultura classica», pp. 244, euro 24,00). Ma la giovane studiosa è bene attrezzata: dalla scuola palermitana di Giusto Picone le viene la competenza filologica, da quella senese di Maurizio Bettini l’apertura all’antropologia. Non stupisce che il risultato sia brillante.
Il dono dovrebbe essere un atto di generosità disinteressata, ma gli antichi sapevano che non è sempre così. Il poeta Marziale lo dice senza ipocrisie: «chiunque fa grandi regali ne vuole di grandi in contraccambio». Come avviene tuttora nelle società di interesse etnologico (si pensi alla cerimonia del kula delle isole del Pacifico), il dono presupponeva l’obbligo della reciprocità. Ma c’è di più: il dono ha un lato oscuro, può addirittura determinare – intenzionalmente o meno – la rovina di chi lo riceve. Di ‘dono perverso’ ha parlato Jean Starobinski a proposito di alcuni celebri miti pagani (Pandora, il dono malefico che gli dèi fanno agli uomini per vendicarsi del furto del fuoco da parte di Prometeo, il Cavallo di legno che i Greci donano ai Troiani per impadronirsi proditoriamente della loro città) e giudeo-cristiani (il frutto che Eva porge ad Adamo nell’Eden). Ma già Marcel Mauss, nel suo fondamentale Saggio sul dono del 1924, aveva richiamato l’attenzione sulla polisemia della parola tedesca Gift, che anticamente designava tanto il dono che il veleno (oggi conserva principalmente quest’ultimo significato, mentre l’inglese gift sta soltanto per ‘dono’, ma in olandese lo stesso termine ha mantenuto entrambi i significati).

Metalinguaggio della relazione
Scolari è particolarmente attenta al dono come «metalinguaggio analogico della relazione», secondo la definizione che ne danno gli studiosi del Mouvement Anti-Utilitariste dans le Sciences Sociales (il cui acronimo è, guarda caso, MAUSS). Il saggio assume come ‘case studies’ alcune storie della mitologia greca che vertono su doni esiziali per chi li riceve e indaga i modi in cui sono state rielaborate dagli scrittori romani. Spicca tra questi racconti quello relativo alla collana di Armonia, un monile d’oro e di gemme preziose forgiato da Efesto e da lui offertole come dono nuziale. Qualche generazione dopo la troviamo in possesso di un discendente di Armonia, Polinice, il quale la dona a sua volta a Erifile, moglie di Anfiarao, perché convinca il suo sposo a partecipare alla spedizione dei Sette contro Tebe. Anfiarao, che è un indovino, sa già che non tornerà vivo da quella guerra e perciò non vorrebbe andare. Erifile però, che ha accettato colpevolmente il dono di Polinice (la norma sociale vigente vietava alle donne di accettare doni da uomini estranei alla propria famiglia), ha contratto con lui un debito ineludibile, e lo paga ‘vendendo’ la vita di Anfiarao, ossia convincendolo subdolamente a partire. Anfiarao parte, ma ordina al figlio che, quando sarà morto, lo vendichi uccidendo la madre. Alcmeone obbedisce, ma per l’orrore del suo gesto impazzisce. La collana fatale lascia dunque dietro di sé una scia di sangue e di lutti, alla maniera dell’Anello del Nibelungo e di altri oggetti, ricorrenti nei racconti folclorici, dotati di una malefica agency.
Tragica è anche la storia di Scilla, la figlia del re di Megara che, invaghitasi di Minosse che assediava la città e sedotta dalle collane d’oro che questi le aveva donato, strappò dal capo del padre il capello purpureo da cui dipendeva la sua vita. Pagò però il fio della sua scelleratezza: il re cretese ripartì senza di lei, o addirittura, in altre versioni, la fece morire annegata.
Analoga la storia, tutta romana, di Tarpea. La figlia del guardiano della rocca capitolina si lasciò abbagliare dall’oro dei nemici sabini e promise di aprire loro le porte se – stando a una delle versioni tramandateci – le avessero regalato quello che portavano al braccio sinistro (ossia i loro bracciali d’oro). Ma giocando sul double entendre, invece che con i bramati monili i nemici contraccambiarono con i pesanti scudi, anche questi tenuti al braccio sinistro, sotto i quali la romana fu impietosamente schiacciata. In tutti e tre i casi il dono – o la promessa di esso – è come un amo (è ancora Marziale a definirlo così): chi vi abbocca ne resta vittima.
Altri miti presi in esame da Scolari sono una perfetta illustrazione dell’adagio «sta’ attento a ciò che chiedi: potresti essere esaudito». Un dono richiesto incautamente può infatti avere conseguenze nefaste. Lo imparò a proprio spese Semele, che avendo ottenuto dal suo amante Zeus la promessa che le avrebbe concesso qualunque cosa avesse desiderato, chiese che si unisse a lei come era solito congiungersi con la sua sposa Hera; ma quando il padre degli dèi le comparve in tutta la sua terrificante maestà, folgori comprese, per la paura morì. Un altro esempio è quello di Fetonte, che sconsideratamente chiese al Sole, suo padre, di poter guidare il suo carro ma non essendosi dimostrato all’altezza del compito andò a schiantarsi nel Po. Fu più fortunato Mida, che dopo aver ottenuto il dono di trasformare in oro qualunque cosa toccasse, sarebbe morto di inedia se Dioniso, impietosito non glielo avesse revocato.

Dono e personalità del donatore
Da altre storie che Scolari prende in esame si evince una regola importante: bisogna considerare non solo il dono, ma anche da chi viene. Dai doni di un nemico, per esempio, non ci si può aspettare nulla di buono. Se Creusa ne avesse tenuto conto, non avrebbe accettato ingenuamente i doni letali della rivale Medea.
La matassa dei miti che Scolari dipana con perizia e pazienza è molto lunga, ma ne emergono con chiarezza alcuni paradigmi culturali: primo fra tutti, quello per cui la cosa donata partecipa dell’essenza del donatore. Accettare un dono significa accogliere nella propria sfera più intima la personalità del donatore, con tutti i rischi del caso. Dalla reciprocità positiva, in cui si fanno e si ricambiano doni con vantaggio di entrambi gli agenti coinvolti, si può slittare infatti a un modello negativo, in cui il dono ha come effetto il nocumento, la vendetta, la rovina di un donatario che per parte sua pecca per avidità, superbia, imprudenza. Il mito, oggi come ieri, è lo specchio in cui possiamo guardare i nostri desideri e le nostre umane debolezze.