Index G è un libro fotografico di Piergiorgio Casotti ed Emanuele Brutti, ambientato a St. Louis (edizioni Skinnerboox, pp. 144, euro 38, a cura di Fiorenza Pinna). Si tratta di un lavoro basato sul malcelato razzismo, per lo più rimosso, persistente in Europa, negli Stati Uniti, nel mondo, e che insedia la vita di ciascuno quando sceglie il quartiere in cui vivere. Beninteso, qualora qualcuno possa permettersi di scegliere. A Milano, per esempio, possiamo intendere Centrocittà, Area C o Cerchia dei Navigli come gated community senza bisogno di cancelli, grazie alla soglia edificata dal valore immobiliare al metro quadrato e dalle telecamere di videosorveglianza. Chi abita vicino a una ristretta minoranza di bianchi e neri, ricchi? Altri ricchi, probabilmente anglosassoni, arabi, che scelgono il quartiere, o ancor meglio, l’isolato in cui vivere (accanto ai propri simili). A meno che non si tratti di badante, governante, cameriera, custode, cuoca, sorvegliante, personale di servizio.

ECCO, Index G, l’indice G presente nel titolo del libro, è la misura di questa diseguaglianza. Le fotografie di Casotti e Brutti affrontano lo spazio e la Storia. Indagare lo spazio significa indagare l’esercizio di un potere e la gestione del tempo; nell’epoca del simultaneo viviamo un tempo completamente burocratizzato, spaesati sì, ma ognuno condannato al ghetto stabilito.
L’incipit del libro di Casotti e Brutti comincia con una voce: una finestra sul fuori, una voce che non è parola ma suono metallico disturbato in una stanza buia; è la radio che ci parla: «L’indice di Gini è una misura della dispersione statistica. Viene utilizzato anche come misura della segregazione residenziale osservando la distribuzione spaziale di gruppi etnici omogenei all’interno di aree contigue, come quartieri o aree metropolitane. Un coefficiente di Gini pari a 1 esprime la massima disuguaglianza. A St. Louis i codici di avviamento postale determinano la vita di una persona». Poi le pagine proseguono con un volto di donna, e solo in seguito siamo sulla strada, vediamo un’angolazione di Olive Blvd. In che modo la parola, non specificatamente sociologica o di critica dell’architettura, può guidare il nostro sguardo in un luogo al contempo estraneo e quotidiano? Più che in un libro qui siamo in un film su carta. Ci sono fotografie e una sceneggiatura su pagine lucide e opache, la voce della radio in macchina, la voce di Ann; eppure il vero personaggio del libro sono le strade che delimitano gli isolati. «Gli Stati Uniti», dice uno degli autori, «hanno ancora un grande problema di discriminazione razziale. St. Louis è una delle città più segregate degli Stati Uniti e questa segregazione residenziale è molto palese. Ci sono strade (Delmar Blvd e Olive Blvd) che dividono la città tra bianchi e neri».

Gli autori del libro sono una piccola troupe, cinematografica: le fotografie di Brutti/Casotti, la sceneggiatura di Casotti, il progetto del libro di Fiorenza Pinna. Insomma, siamo approdati in una sorta di fotoromanzo antimoderno, sebbene le immagini esistano entro una rete di relazioni, restino legate a processi storici che hanno prodotto il risultato di ciò che siamo costretti a vivere, quindi a vedere. Da questo punto di vista, potremmo dire non che la forma equivale al contenuto, ma forma e contenuto, assieme, equivalgono al contesto, così da indurci alla percezione del qualcosa qui non va. E se è vero che ogni libro comincia dalla copertina, siamo condotti nella storia dall’immagine di una stanza vuota, abbandonata, un foglio attaccato alla parete, un foglio che sembra indicare un elenco: sono nomi, siamo noi?

SE NE SONO ANDATI tutti, pensiamo. Poi, sempre nell’immagine di copertina, compare una soglia che conduce al buio, lo stesso buio che circonda le fotografie del libro, un nero persistente, un grande rettangolo verticale con inevitabili riferimenti all’indecifrabile monolito di Kubrick. Gli uomini hanno sognato, abitato la caverna, e poi sono usciti alla luce, così hanno trovato macchine usate, strade, case vuote e abbandonate da loro stessi, quando ritenevano di essere svegli. “È dallo specchio che mi scopro assente nel posto in cui sono”, scriveva Foucault, e continuando così, sulla strada, troviamo cibo spazzatura, pneumatici, inutili spazi recintati, negozi per la ricostruzione delle unghie, e le case che appunto, per un breve istante anche nel libro, abbiamo visto da dentro: ecco tutto ciò che si trova dall’altra parte del vetro, è lì che abitiamo, è questo ciò siamo, mentre, tra eguali, attraversiamo un incrocio.