L’emergere di movimenti come il Black Live Matter ha acceso lunghi dibattiti e spinto a redigere appelli plurifirmati sul pericolo della «cancel culture» di cui mobilitazioni di massa come quelle sarebbero rischiose e destabilizzanti portatrici. Risistemando in prospettiva storica una questione di tale natura, ovvero indicando chi davvero detiene il controllo del passato e come viene esercitata tale egemonia memoriale nella sfera pubblica, non si può non convenire che da sempre sono gli Stati e le istituzioni a detenere il monopolio della memoria e a definire paradigmi identitari sui quali viene formata l’opinione pubblica. Questa pratica muove innanzi tutto da una scelta dirimente: stabilire ciò che sia necessario ricordare e, contestualmente, ciò che debba essere obliato al fine di comporre un piano di compatibilità tra la legittimazione del presente delle nostre società, le loro radici d’origine ed i loro miti fondativi condivisi.

A riprodurne una pratica tangibile in Italia sono alcune modalità di rappresentazione della storia nazionale. A raccontarne un significativo caso è la vicenda dei 48 campi d’internamento costruiti dal fascismo dove vennero deportati migliaia di antifascisti italiani e di cittadini degli Stati esteri aggrediti dal regime di Mussolini.

Il 22 settembre è ricorso l’anniversario di un episodio che nel suo apparente rilievo locale esprime un prisma storico di misura generale particolarmente rilevante. Quel giorno del 1943 si verificò, infatti, la grande fuga di oltre 1200 civili jugoslavi che erano stati deportati dalle loro case dalle truppe del regio esercito e rinchiusi nel campo di internamento di Colfiorito di Foligno, uno dei luoghi adibiti dal regime alla reclusione di antifascisti italiani e civili «allogeni» dei Balcani occupati. Mussolini era caduto il 25 luglio ma nonostante l’Italia di Badoglio avesse firmato, l’8 settembre, l’armistizio con gli Alleati molti di quei campi rimasero (per un tempo limitato) ancora operativi. A Colfiorito, nella struttura attiva fin dal 1939, furono imprigionati resistenti italiani, albanesi e jugoslavi in nome della «snazionalizzazione» delle terre occupate voluta dal fascismo. Più tardi vi furono reclusi anche prigionieri di guerra inglesi e sudafricani.

Da quella fuga, come da altre ancora lungo tutta la dorsale appenninica e non solo, presero corpo e vita le brigate partigiane composte da popoli diversi che la dittatura aveva voluto nemici e che, al contrario, si ritrovarono compagni di lotta nella Guerra di Liberazione d’Italia.

Alla snazionalizzazione fascista quegli uomini, pure nel fuoco della guerra e della miseria, ebbero la forza di rispondere con una scelta di impegno personale e con un sentimento internazionalista che concorse ad identificare la Resistenza, nella sua espressione concreta, materiale e scevra dalla retorica, come un movimento mondiale comparso, in forme e dinamiche diverse, in tutti i Paesi e coinvolgente tutti i popoli investiti dalla guerra totale nazifascista.

Lo stesso processo che coinvolse nei Balcani migliaia di soldati italiani che dopo l’8 settembre si trasformarono da occupatori in combattenti antifascisti, nelle fila dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia guidato da Josif Tito, riscattando almeno in parte gli innumerevoli crimini di guerra di cui si macchiò il regio esercito nella sua «guerra ai civili».

Una storia, dunque, che compone un correlato inderogabile tra le grandi questioni che connettono dialetticamente, entro la misura della storia, il passato prossimo ed il tempo presente: dai conti del nostro Paese con l’eredità fascista alla cosiddetta «mancata Norimberga italiana»; dalla nostra radice costituzionale che affonda nella Resistenza alle modalità politiche ed istituzionali, ma anche culturali e sociali, della transizione dell’Italia dalla dittatura alla democrazia; per finire alla individuazione dell’esperienza antifascista come tratto inscindibile dell’identità comune europea e dell’unità dei suoi popoli.

A Colfiorito, sebbene se ne discuta da tempo e nonostante l’impegno di associazioni culturali (la onlus Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia) non sono ancora sorti un monumento, un museo o una lapide che ricordino quelle vicende che richiamano il nostro passato prossimo e la nostra identità collettiva ovvero quella nostra «cultura cancellata» non da furia iconoclasta ma dal silenzio delle istituzioni.