Le ventotto pagine della relazione letta ieri da Giorgio Squinzi all’assemblea annuale di Confidustria hanno confermato che il cuore delle larghe intese batte a Viale dell’Astronomia. Porgendo il saluto iniziale alla platea dell’auditorium della musica, il presidente del Consiglio Enrico Letta ha voluto confortare questa impressione. Dopo le tensioni con Monti e Berlusconi, tutto il nuovo governo può permettersi tranne che essere bombardato giornalmente da Squinzi. Letta ne ha incassato la benedizione. Il suo governo è «un buon risultato» gli ha detto Squinzi. Gli industriali lo appoggeranno «con tutte le forze se porterà la crescita». «Noi non siamo una casta – ha precisato il presidente degli industriali – Noi siamo la casa del capitalismo reale: quello produttivo e dell’innovazione». Oltre all’investitura politica Squinzi ha così vincolato il governo Letta ad un modello di impresa in crisi come quella manifatturiera: «Questo è il motore del nostro sistema perché acquista beni e servizi prodotti dagli altri settori». La «crescita» dovrebbe arrivare da una politica energetica più che tradizionale, e non di «green economy», che punta tutto sulle fonti fossili e progetta di costruire rigassificatori e elettrodotti al Sud, abbassando le tasse sul lavoro (cioè i costi per le imprese). Per Confindustria servono inoltre investimenti sulle infrastrutture da finanziare con i fondi europei, gli stessi che dovranno rianimarel’occupazione giovanile e molto altro. Un’attesa messianica pari quasi a quella dell’Expo di Milano nel 2015 che Squinzi e Letta, all’unisono, definiscono una «vetrina». In attesa della crescita che si dice arriverà a fine anno, bisogna fare presto: l’industria del Nord, cuore del paese, è «sull’orlo del baratro» e rischia di sprofondare il paese. Squinzi ha accarezzato l’intesa sulla rappresentanza con i sindacati ormai prossima dopo sessant’anni di attesa. Con qualche distinguo di Susanna Camusso della Cgil, tutti ne hanno apprezzato la relazione in attesa dei fatti: basta che torni all’orizzonte la crescita, si produca un po’ di lavoro e che ai lavoratori vada in tasca qualcosa. L’agenda di Confindustria riprende temi ormai cari al governo Letta: accorciare l’intervallo tra un contratto a termine e l’altro, riformare l’apprendistato, puntare sulla hit del momento: la «staffetta integenerazionale». Proposte modeste che, in alcuni casi, alimenteranno la tentazione delle aziende a ricorrere a contratti a termine della durata di meno di un mese. Quelli che secondo l’Isfol sono aumentati del 45% a 5 mesi dall’approvazione della riforma Fornero. Squinzi chiede nuova «flessibilità», punta quindi a moltiplicare questa tendenza che punta tutto sul risparmio del costo del lavoro per le imprese. Applauso unanime delle larghe intese anche per un’altra denuncia di Squinzi: il costo del lavoro è aumentato del 12% in otto anni e il cuneo fiscale è oltre il 53% del costo del lavoro. Cifre che impediscono una concorrenza sull’export con la Germania. Squinzi ha assicurato che non vuole più «precarietà», ma «flessibilità in entrata». Come se i 46 contratti precari esistenti non bastassero ancora. E arriviamo alla «staffetta generazionale». Qui gli entusiasmi sono di facciata. La «staffetta» esiste sin dalla legge Treu sulla precarietà (era il 1997). Da allora è stata usata molto di rado, in particolare alle Poste o nelle banche per favorire l’uscita anticipata dal lavoro dei dipendenti anziani e l’ingresso dei loro figli o congiunti. Insomma uno strumento di nepotismo legalizzato.
In attesa che il governo fornisca dati precisi, è difficile immaginare che un «anziano» possa scegliere un part-time, dimezzandosi lo stipendio in tempo di recessione, o scelga di andare in pensione anticipata. In questo caso aumenterebbero i contributi pensionistici a carico dello Stato che dovrebbe compensarli. La staffetta è in realtà un ammortizzatore sociale da usare in caso di necessità, non una bandiera da sventolare per attrarre le sirene della crescita dell’occupazione. Sui fondi per la Cig in deroga Squinzi ha avuto uno di quei guizzi che hanno reso memorabile la sua opposizione a Monti. Non lo convince l’idea di Letta di finanziarla con un miliardo di euro togliendo risorse ai fondi interprofessionali per la formazione, dalle politiche attive per il lavoro: «In questo modo – ha detto – si creerebbe nuova disoccupazione». Questo sarebbe l’ultimo paradosso al tempo delle larghe intese. Troppo anche per un capitalismo «produttivo e innovativo» come quello di Confindustria.