Giuseppe Pinelli precipitò dal quarto piano della questura di Milano pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ferroviere di 41 anni, storico dirigente del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, era stato fermato dal commissario Luigi Calabresi la sera del 12 dicembre, qualche ora dopo la strage di piazza Fontana, e trattenuto illegalmente.

Come più volte è stato raccontato, dapprima si sostenne, da parte dei dirigenti della questura, che Pinelli era implicato nella strage di piazza Fontana, poi che, sentendosi perduto, si sarebbe suicidato.

La conclusione giudiziaria fu scandalosa. La pietra tombale fu posta nell’ottobre 1975 dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio con la sua famosa sentenza di proscioglimento, unica nella giurisprudenza italiana, per cui non si trattò né di omicidio né di suicidio. Giuseppe Pinelli, in spregio alle più elementari leggi della fisica e della medicina legale, causa un «malore attivo» fu preda, secondo questa ricostruzione, di un’«improvvisa alterazione del centro di equilibrio», che innescando «movimenti scoordinati» lo proiettò letteralmente fuori dalla finestra.

Una vergognosa invenzione

Un fenomeno senza precedenti, mai più verificatosi in nessun altro luogo e in nessun altro Paese. Ma solo quella notte, a quell’ora, in quell’ufficio della questura di Milano, vittima un ferroviere anarchico.

Una ricostruzione palesemente inventata al solo scopo di non portare a processo i poliziotti e i carabinieri responsabili, tra loro il commissario Luigi Calabresi, come testimoniò Pasquale Valitutti, un altro anarchico, che lo vide entrare e non uscire da quell’ufficio prima del «volo» di Pinelli. Un atto di vergognosa sottomissione della giustizia.

Da allora sono state formulate diverse ipotesi sulla fine dell’anarchico. Alcune decisamente fantasiose. Una, in particolare, tra le ultime, ha lasciato tutti esterrefatti. A esternarla non uno qualsiasi, ma addirittura un ex commissario di Polizia, Giordano Fainelli, presente quella notte in questura. In un’intervista rilasciata all’agenzia giornalistica «Il Velino», nel luglio 2006, raccontò che «Pinelli era stato lasciato completamente solo» e che «intorno a mezzanotte» gli «venne incontro il collega Mainardi concitatissimo» che gli disse «è scappato Pinelli, non si trova più». Ma la fuga si era conclusa tragicamente: l’anarchico, attaccatosi, per scappare, alla ringhiera di una porta-finestra (secondo Fainelli del terzo piano, mentre Pinelli precipitò dal quarto) era scivolato schiantandosi nel cortile sottostante. Il motivo di questo maldestro tentativo il fatto che non potesse «più negare il suo coinvolgimento» nei precedenti attentati in agosto.

Incredibile che a raccontare una frottola di questa portata sia stato un funzionario di polizia, che non solo ha fatto finta di non sapere che per quegli attentati di agosto furono poi condannati con prove inoppugnabili i fascisti di Ordine nuovo, ma che in tutti questi anni ben si è guardato di riferire il suo racconto a un magistrato.
Uno squarcio di verità, passato sotto silenzio, c’è stato consegnato, invece, da un’altra inchiesta, questa sì incredibilmente dimenticata. Ci riferiamo a un interrogatorio accluso agli atti dal giudice veneziano Carlo Mastelloni nel corso della sua indagine riguardante l’aereo militare C-47 Dakota, in sigla Argo 16, a disposizione dei servizi segreti italiani, caduto il 23 novembre 1973 a Marghera, in cui persero la vita quattro membri dell’equipaggio. Si ipotizzò il sabotaggio da parte del Mossad israeliano come atto di ritorsione per la politica filo araba italiana. Lo stesso velivolo, alcune settimane prima, era stato, infatti, utilizzato per riportare in Medio Oriente cinque palestinesi fermati a Ostia mentre preparavano un attentato contro un aereo della compagnia di bandiera El Al.

Ebbene, in una lunga deposizione dell’ex maresciallo Giuseppe Mango, dal 1965 presso la direzione centrale del Ministero dell’interno, rilasciata il 19 aprile 1997 e riguardante il funzionamento dell’Ufficio affari riservati, si parlò anche della morte di Giuseppe Pinelli.

Antonino Allegra, il dirigente dell’Ufficio politico della questura di Milano «fu convocato a Roma da D’Amato», il direttore della Divisione affari riservati, «ed entrambi si recarono da Vicari», l’allora capo della Polizia, così disse Giuseppe Mango.

Una ricostruzione chiarificatrice

«Allegra sosteneva che Pinelli si era appoggiato di spalle alla finestra e che improvvisamente si era buttato giù». Una ricostruzione nuova, mai avanzata in precedenza, in palese contrasto con le deposizione di tutti coloro che si trovavano in quell’ufficio, accompagnata da un ulteriore elemento chiarificatore. «Dal D’Amato medesimo seppi che al Pinelli era stata contestata una falsa confessione di Valpreda, notizia improvvisamente portata da qualcuno, credo dal capitano dei carabinieri il quale aveva fatto irruzione nella stanza piena di personale della questura».

Evidente la concatenazione dei due eventi. Pinelli di spalle alla finestra era stato violentemente aggredito da chi, attraverso una dichiarazione inventata ad arte, gli contestava la colpevolezza degli anarchici. Una pressione anche fisica. Da qui la caduta nel vuoto. Ma anche la spiegazione dell’assenza sulle sue mani e sulle sue braccia di abrasioni. In quella posizione era caduto all’indietro, a corpo morto. Non aveva neanche potuto tentare di aggrapparsi alle sporgenze del muro. Aveva picchiato sul cornicione sottostante ed era poi finito nel cortile.

Forse le cose andarono proprio così.