Fare libri, sosteneva Jean de la Bruyère, è un mestiere simile a quello dell’orologiaio. Intendeva dire che ci vogliono acribia, pazienza e periodici aggiustamenti. L’aforisma ben si attaglia all’ultimo (ma solo nel senso di più recente) lavoro di Mario Torelli: Gli Spurinas Una famiglia di principes nella Tarquinia della “rinascita” (L’Erma di Bretschneider, pp. 206, € 145,00).
Lo studioso – parliamo di uno dei nostri maggiori archeologi, capace di spaziare con pari competenza dall’età arcaica a quella tardo-antica – cominciò a occuparsi degli Spurinas oltre mezzo secolo fa, quando, nel prendere in mano un frammento di iscrizione latina conservato in una scatola di scarpe nel magazzino del museo di Tarquinia, si rese conto, con un’emozione ancor oggi viva nel suo ricordo, che ‘attaccava’ con altri frammenti rinvenuti decenni prima presso la cosiddetta Ara della Regina, il tempio poliadico dell’antico centro etrusco. Erano tutti pertinenti a tre statue erette nella prima età imperiale ai membri di una famiglia tarquiniese protagonista di imprese gloriose fra il V e il IV secolo a.C., ma il nome di questa famiglia non compariva nel testo noto fino a quel momento. Le poche lettere presenti sul frammento riesumato dalla scatola di scarpe fornirono in modo insperato la risposta: si trattava degli Spurinas (latinizzati in Spurinnae).
In un libro del 1975 Torelli ne riscostruì magistralmente la prosopografia: l’iniziatore delle fortune era stato Velthur Spurinna figlio di Lars, che ricoprì due volte la massima magistratura della città (il titolo latino praetor corrisponde all’etrusco zilath) e, primo fra tutti gli Etruschi, come viene sottolineato nel suo elogium, trasportò per mare un esercito in Sicilia. Torelli collegò quest’impresa alla guerra che nel 415-414 a.C. gli Ateniesi stavano conducendo contro Siracusa, e a cui Tarquinia partecipò come alleata di Atene. Stando allo storico Tucidide, l‘unica vittoria riportata dagli alleati sui Siracusani si dovette proprio al contingente accorso da Tarquinia. I fasti familiari furono continuati dal figlio, anch’egli di nome Velthur, ma il suo elogium è troppo lacunoso: sappiamo solo che ricoprì come il padre la più alta carica di Tarquinia. Meglio informati siamo invece sul conto di Aulo Spurinna, nipote del primo Velthur. Aulo, si dice nel suo elogium, fu primo magistrato per ben tre volte, e agì anche al di fuori della sfera tarquiniese: intorno alla metà del IV secolo a.C. abbatté un regime ‘tirannico’ a Cerveteri, sicuramente per instaurarvi una repubblica aristocratica come a Tarquinia; intervenne ad Arezzo in seguito a una rivolta di servi della gleba, e strappò a Roma, che si era incuneata in territorio etrusco, alcuni insediamenti sulla riva destra del Tevere. I tre Spurinna ebbero in vita l’onore del trionfo, e Torelli ipotizzò da subito che le tre statue fossero state erette in loro onore da un discendente della stessa famiglia: quel Vestricio Spurinna che occupò posizioni di rilievo a Roma nel I secolo d.C.
Negli oltre quarant’anni trascorsi da quel primo lavoro Torelli, da quello studioso di razza che è, non ha mai abbandonato il dossier, tornando in varie sedi su particolari che gli apparivano meritevoli di approfondimento, quando non di correzione, in attesa di produrre un’opera conclusiva, «come vorrebbe essere appunto questa, anche per l’età del suo autore» (ma il ‘ragazzo’ ultraottantenne ha ancora entusiasmo e capacità di lavoro da vendere).
E le novità contenute in questa che troppo modestamente l’autore chiama una summula non sono né poche né da poco. Rispetto ai lavori precedenti c’è una maggiore attenzione al contesto. L’erezione di statue di trionfatori è immaginabile solo in un tempio che avesse le stesse funzioni che a Roma aveva il Capitolium. Perciò Torelli, dopo aver smontato l’ipotesi che il tempio dell’Ara della Regina fosse dedicato, come ipotizzato dagli scavatori, a una divinità straniera (Hercle, versione etrusca di Eracle), lo attribuisce con argomenti convincenti a Tinia, la divinità più importante del pantheon etrusco, omologo del Giove Capitolino romano (in epoca romana la cella sembra essere stata tripartita, probabilmente per ospitare la triade Giove, Giunone, Minerva, proprio come a Roma, a riprova dell’analogia funzionale tra i due edifici).
La ristrutturazione più sontuosa del tempio (quella a cui appartiene il notissimo rilievo dei Cavalli Alati), databile intorno al 380 a.C., avvenne all’epoca di Velthur II, e benché poco si sappia di quest’ultimo, Torelli, rapportando come sempre l’archeologo dovrebbe fare la documentazione materiale al quadro storico, vede in lui il vero artefice della ‘rinascita’ della città-stato, basata su una radicale riorganizzazione socio-economica (l’affrancamento dei servi e un diverso sistema di produzione agricola).
Ma le acquisizioni scientifiche più rilevanti riguardano uno dei monumenti più importanti di Tarquinia, la Tomba dell’Orco, così detta per le pitture parietali con scene del regno dei morti. L’ipogeo in realtà è costituito da due tombe comunicanti, la tomba I, della prima metà del IV secolo a.C., e la tomba II, della seconda metà di esso. Accantonando definitivamente l’idea, sostenuta da altri in passato, che il fastoso sepolcro fosse stato costruito fin dall’origine dai Murinas, una famiglia di scarsissimo rilievo nel IV secolo, Torelli propone con validi argomenti di vedervi invece la tomba gentilizia proprio degli Spurinas, attribuendo la prima fase a Velthur I e l’ampliamento a Velthur II. I Murinas subentrarono solo quando i vecchi proprietari abbandonarono il sepolcro, e verosimilmente la città stessa, probabilmente perché i Romani, dopo la conquista, costrinsero all’esilio gli aristocratici di cui non si fidavano. Se fossero stati dei legittimi discendenti, argomenta Torelli, non si spiegherebbe perché abbiano cancellato dalle pareti molte immagini dei vecchi proprietari.
L’archeologo traccia in sostanza con mano felice l’ascesa e la caduta di una grande famiglia, e non come in un romanzo alla Thomas Mann, bensì costruendo una solida trama di Realien, ricavati dall’epigrafia e dall’analisi iconologica. Quest’ultima è particolarmente affilata. Anche se la nekya (discesa agli inferi) dipinta nella tomba dell’Orco II presenta ovvii e immancabili riferimenti a quella di Ulisse cantata da Omero, Torelli ne evidenzia altri, riferibili a quella più tarda di Enea narrata da Virgilio (il quale potrebbe anche avere attinto a fonti di ascendenza etrusca). Nel complesso programma figurativo abbondano i personaggi mitici. Gli eroi postivi sono quelli di cui le future generazioni degli Spurinas sono destinate a reincarnare le virtù (il prestigio di Agamennone, la forza di Aiace e la metis, l’intelligenza pratica, di Palamede), mentre i grandi peccatori sono lì a ricordare l’ineluttabilità del destino degli uomini: da vivi non si entra nell’Ade, come osarono fare Teseo e Piritoo, che perciò furono condannati a restarvi prigionieri; da morti non se ne esce, come invano tentò di fare Sisifo con l’inganno.
La lezione di metodo che Torelli ci impartisce con questo libro è riassunta da lui stesso in poche parole: l’archeologo ha il dovere di tentare un approccio «globale, particolarmente utile soprattutto nel caso in cui appaia possibile accostare i dati della tradizione letteraria a quella archeologica, evitando però rozze contaminazioni».
Come non essere d’accordo? Sbaglia lo studioso che pretende di attenersi esclusivamente ai fatti accertati. Come diceva Thomas Huxley, «coloro che si rifiutano di andare oltre il fatto, raramente arrivano al fatto stesso».