Lo sport è una chiara cartina al tornasole per i mutamenti sociali, politici ed economici di una nazione. Il consumo di sport, dalle poltroncine allo stadio alla pay tv fino alla settimana bianca, può essere la peculiarità di un paese come il nostro che non ha paragoni al mondo. Lo sport italiano, fin dalla metà dell’Ottocento, affonda le sue prime radici nella cultura del corpo; in tempi più recenti è stato occasione di riscatto sociale per le vittorie conseguite in alcune manifestazioni internazionali, come è avvenuto con la vittoria dei campionati mondiali di calcio nel 1982. È stato l’inizio di un decennio che si era lasciato alle spalle gli anni di piombo di fine ‘70. Più recentemente l’affermazione su scala internazionale delle donne nel campo della scherma con Valentina Vezzali e tutte le altre campionesse, nel nuoto con Federica Pellegrini e nello sci con Sofia Goggia e altre sciatrici della valanga azzurra.
Un libro, Storia dello sport in Italia ( il Mulino, pp. 280, euro 21) – scritto a due mani dal francese Paul Dietschy e da Stefano Pivato, segno che la ricerca condotta dagli storici sullo sport comincia a dare i frutti di un lavoro e di una condivisione comune – prova ad analizzare l’evoluzione del fenomeno sportivo dell’Italia dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri e lo fa coprendo un vuoto attraverso una ricerca documentata e rigorosa. Il primo e unico libro che aveva trattato la storia dello sport nel nostro paese con ampia visione era stato scritto da Felice Fabrizio, antesignano tra gli storici che si erano occupati del fenomeno sportivo, e pubblicato da Guaraldi verso la metà degli anni ‘70. Pivato, docente di Storia contemporanea all’Università di Urbino e già autore di un libro sul campione del ciclismo Gino Bartali (Sia lodato Bartali, ripubblicato nel 2018 da Castelvecchi) e Paul Dietschy, docente di Storia contemporanea presso l’Université de Franche-Comté e autore di Storia mondiale del calcio (Pagina Uno, 2016), aggiornano con la loro opera gli ultimi cinquant’anni e lo fanno con una lucidità e un rigore che argina quella superficialità che si rileva da parte di tanti autori, soprattutto giornalisti sportivi, ma non solo, che negli ultimi decenni, spinti da irrefrenabile narcisismo, spesso hanno prodotto opere di una mediocrità impressionante, vista anche la facilità con la quale oggi tutti pubblicano.
Particolarmente interessante è il capitolo dedicato al rapporto tra lo sport e il fascismo, nell’idea del regime di costruire grazie allo sport il consenso di massa prima e i campioni dell’«uomo nuovo» poi, a cominciare dal calcio e dalla nazionale che si impone nei campionati mondiali del 1934 e del 1938, senza dimenticare il fenomeno di Primo Carnera, definito il «Gigante buono» dalla retorica di regime, abbondantemente sfruttato dal fascismo come prova del successo della rivoluzione antropologica, salvo scaricarlo appena viene battuto da un «negro».
Primo Carnera, ridotto in povertà, fu costretto a emigrare in America con tutta la sua famiglia.
Il rapporto più difficile, però, il fascismo lo ebbe con il campione del ciclismo Gino Bartali, come scrivono gli autori: « Pur non arrivando a essere esplicitamente antifascista, ostenta il suo attaccamento alla formazione ricevuta in seno all’Azione cattolica ormai privata delle sue associazioni sportive dopo la crisi del 1931. Popolare all’estero, soprattutto in Francia, non rappresenta pertanto ‘ il cliché dello sportivo fascista fatto di arroganza e disprezzo’ e per questo viene messo alla gogna dal regime fascista di Farinacci».
Quegli anni erano stati anticipati dai due decenni precedenti, quando nel rapporto tra lo sport e la politica sia i cattolici, attraverso la figura di Luigi Gedda, dinamico presidente della gioventù italiana di Azione cattolica, sia la sinistra, attraverso la figura del medico e deputato socialista Giacinto Menotti Serrati, poi approdato nel partito comunista di Gramsci, cercarono di utilizzare lo sport come occasione di proselitismo giovanile. Nel rugby praticato dai fascisti nel dopoguerra era difficile trovare qualcuno di sinistra, come ricorda l’artista Hugo Pratt: «Dopo la guerra abbiamo provato a fare la squadra a 15. Io ero l’unico antifascista, tutti gli altri venivano dal Guf, gli universitari del regime».
In tempi più recenti lo sport si intreccia con la politica attraverso i protagonisti della scena degli anni ‘70, dal democristiano Amintore Fanfani che confessa di aver organizzato da giovane lunghe e sfiancanti escursioni per sfuggire alle tentazioni sessuali fino a una lettera di Luciano Lama, a lungo segretario della Cgil e poi deputato della sinistra, che scrive a Gianni Agnelli sul rapporto tra il gioco della Juventus, l’innovazione della Fiat e gli operai della casa automobilistica torinese, cui segue un pronta risposta da parte dell’Avvocato sul quotidiano di famiglia la Stampa.
Poi i vacui anni ‘80, tra i peggiori del Novecento dopo gli anni Trenta, quelli delle palestre di fitness e del culto del corpo, definiti da Jean Baudrillard una vera e propria «ossessione collettiva asessuata».
Oggi, dopo oltre un trentennio, non siamo molto lontani da quella condizione.