In un famoso discorso che accompagnò l’abolizione della pena di morte in Francia, l’allora Ministro Robert Badinter disse che se il rischio di andare incontro alla fine avesse davvero un potere deterrente, non solo non esisterebbero criminali sanguinari ma neppure grandi sportivi, che non esitano a mettere a repentaglio la propria incolumità pur di superarsi. Questo rapporto tra sport e thanatos entra spesso in gioco nell’immaginario cinematografico ma anche in quello seriale come ben dimostra la prima stagione di Spinning Out, approdata su Netflix.

NON È UN CASO che ciò avvenga nell’anno delle Olimpiadi estive e nella prospettiva di costruire un clima di coinvolgimento e attesa in vista di quelle invernali di Pechino 2022. La serie racconta infatti le vicende di un gruppo di pattinatrici e pattinatori che sognano di qualificarsi per i prossimi Giochi sul ghiaccio. La protagonista è Kat (Kaya Scodelario, già nella serie Skins) a cui una caduta ha lasciato in eredità una grossa cicatrice sulla testa e un trauma che la rende incapace di lanciarsi nei salti che sono il quid della sua disciplina sportiva. Che fare? Abbandonare per sempre i pattini o lottare per ridarsi una chance? Risolvere il dilemma non è semplice tanto più che Kat deve fare i conti con una famiglia sfasciata, una cronica mancanza di denaro che le impedisce di procurarsi un allenatore come si deve e un disturbo bipolare. Come se non bastasse, anche sua madre Carol (January Jones, già in Mad Men) è bipolare, poco incline ad assumere le medicine ma molto perversa nell’alimentare una malsana rivalità tra Kat e la sorellastra minore Serena (Willow Shield), pure lei stella nascente dell’ice skating.

DOPO MOLTE esitazioni, Kat finisce per cedere alla passione sportiva ma anche all’insistenza di Justin, brillante e dongiovannesco rampollo locale, che la vuole come sua partner sul ghiaccio e non solo. Ma per costruire un sodalizio capace di reggere sul rink, i due sono costretti a una serie di prove. Tutto il conflitto tra Kat è Justin si muove attorno al loro opposto e complementare rapporto con la morte: mentre lei, dato il trauma, è inibita da una fortissima paura, Justin non ne ha nessuna ed è anzi autodistruttivo per ragioni che affondano le radici in un lutto mai elaborato. Spinning out procede dunque per accumulo di sventure psichiche e sentimentali: episodi maniacali, attacchi di autolesionismo, innamoramenti, tradimenti, infortuni. La serie scritta dall’ex skater e ora sceneggiatrice Samantha Stratton è un guilty pleasure che allude a quei film sul pattinaggio o sulla danza (da Tonya a Cigno Nero) in cui dietro alla soavità delle movenze si celano crudeltà e sofferenze mentre calze coprenti, body e trucco mascherano lividi, ferite e lacerazioni fisiche ed emotive.
Spinning out non si spinge però fino alla denuncia delle norme estetiche e sociali esclusive o delle logiche della prestazione rischiosamente patogene che reggono tali ambienti e che ormai dilagano ovunque nella nostra società. Si limita ad affogare in un mare di diversivi sentimentali il problema molto serio del disturbo bipolare e in generale dello stigma della malattia mentale in uno sport basato sull’inganno della perfezione.

AMBIENTATA in Idaho ma girata in Canada, la serie si avvale della partecipazione di un gruppo di atlete e atleti professionisti come controfigure salvo Johnny Weir che quando gareggiava si era fatto notare per il suo stile eccentrico e a cui è stato affidato il ruolo di Gabe, sportivo dichiaratamente gay ma non unico personaggio queer in una serie attenta in modo quasi maniacale alla diversità di genere e razziale. Eppure, tanta attenzione non ha messo al riparo il gruppo produttivo da un’accusa di scorrettezza: il quotidiano canadese The Globe and Mail, infatti, sostiene che l’immagine della protagonista sembra scippata alla gloria nazionale canadese Tessa Virtue, oro olimpico nel 2010 e nel 2018. Per rendere la serie veramente appassionante nelle prossime stagioni, però, curare l’estetica non basterà. Sarà necessario uno sforzo di scrittura capace di dare spessore drammaturgico alla rappresentazione di uno sport in cui elementi di conflitto e di intensità non mancano.