È esistito un capitalismo con uno spirito diverso da quello descritto da Max Weber? Secondo la genealogia di Luigino Bruni, Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto (il Mulino, pp. 201, euro 19) sì. Alle origini di questo capitalismo alternativo, secondo l’autore, ci sono paradossalmente i più radicali esperti della povertà, cioè alcuni membri degli ordini mendicanti alleati dei mercanti. Sono soprattutto i francescani, nello stesso periodo di sviluppo delle banche e della prima finanziarizzazione dell’economia nel tardo medioevo, a teorizzare e creare un sistema creditizio alternativo rivolto a quelli che oggi chiameremmo i meno abbienti. Dopo la peste nera e più specificamente a partire dalla prima metà del XV secolo, soprattutto nell’Italia del centro e del nord, vengono creati i monti di pietà. La differenza tra questi e le banche sta nella diversa natura di compenso del capitale prestato.

NEL PRIMO CASO l’interesse costituisce una remunerazione della struttura che mette a disposizione il denaro, nel secondo caso invece costituisce una rendita sul tempo – dimensione, questa, non a disposizione degli umani, ma esclusivamente di Dio. Nel primo caso l’interesse è considerato lecito, nel secondo caso usura. Anche dopo la riforma e la controriforma, le idee e gli istituti di quello che potremmo definire capitalismo compassionevole, con al centro il piccolo credito dei monti di pietà, si diffondono e fanno concorrenza non soltanto all’altro capitalismo, ma anche al sistema assistenziale puro, quello degli enti di carità gestiti dagli ordini religiosi, alla cui base stanno spesso le donazioni nobiliari e dell’autorità politica. Nell’assistenza e nel capitalismo puri, gerarchie e ruoli sociali rimangono separati, mentre nel capitalismo compassionevole dei monti di pietà proprio l’interesse, come profitto lecito e non come rendita di posizione, costruisce osmosi sociale e contribuisce così a definire quella disciplina e pratica dell’economia che nel ‘700 verrà detta civile.

Un’economia nella quale protagonisti non sono soltanto i fattori e i soggetti che creano l’accumulo originario della ricchezza – come invece nell’altro versante settecentesco dell’economia politica e cioè quello che si sviluppa da Adam Smith – ma la comunità tutta. E è proprio la comunità, l’oggetto di analisi dell’altro libro di Bruni, La comunità fragile. Perché occorre cambiare molto per non perdere troppo (Città Nuova, pp. 115, euro 15). Le comunità prese in esame da Bruni sono quelle religiose carismatiche – ma il suo discorso può essere esteso anche a altri tipi di comunità. Il carisma, oltre che fattore fondante, per Bruni può costituire un rischio per le comunità. Il rischio di un’adesione irrigidente a uno spirito fondativo non più declinato all’inevitabile trasformazione che assume la vita pratica e spirituale delle comunità. Il rischio di una fedeltà al fondatore e alla tradizione che impedisce ai membri di vivere la stessa comunità come luogo nel quale trovare la propria vocazione che non deve coincidere esattamente con quella del gruppo.

QUELLE IMMAGINATE da Bruni sono comunità più fluide e flessibili non solo al loro interno fra i propri membri, ma anche all’esterno con gli altri soggetti sociali. Oltre che del carisma originario, secondo Bruni, le comunità sono fornite anche di un dispositivo che sa tenere insieme principi e loro attuazione trasformativa e eventualmente generativa di ulteriori carismi: la regola. Tale componente è per Bruni un analogo di ciò che oggi chiamiamo governance. E è su quest’ultima che chi si occupa di curare la comunità è chiamato a intervenire soprattutto.

Tuttavia, siamo sicuri che governance e regola comunitaria possano essere equiparate? La governance considera la regola come mera capacità di gestione che prescinde da ciò che la regola e la comunità stesse vogliono esperire e raggiungere. La governance e tutti gli altri termini che alla fine del suo libro Bruni utilizza con più insistenza, come flessibilità, individualità, liquidità provengono proprio da quel tipo di capitalismo che lo stesso Bruni critica. Segno, ancora una volta, che la profezia secondo cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo ha ancora una sua attuale pregnanza.